vita di padre Maurizio Malvestiti


(don Giorgio Zanardini - Maria Virginia Guarneri - Roberto Lanzi)

padre Maurizio Malvestiti e il principe Luciano Bonaparte

un'amicizia dalla terra al cielo

I primi anni di Padre Maurizio

Fortunato Antonio Malvestiti (con la consacrazione religiosa assumerà il nome di Padre Maurizio) nasce a Verolanuova in provincia di Brescia il 17 febbraio 1778 da Francesco e da Maddalena Franchi, in una casa situata a fianco della imponente basilica di San Lorenzo, che Paolo III (Alessandro Farnese nato a Canino (VT) nel 1468) nel 1534 aveva eretto in collegiata insigne, con tutti gli oneri e privilegi connessi a tale riconoscimento.
Da dove deriva questo nome “Veròla”? Diciamo innanzitutto che Veròla è stato sede di militari e civili romani; nel territorio sono state ritrovate armi e monete romane. Due sono le possibili derivazioni. Da “vegher”= terreno incolto e non lavorato oppure da “viroris”= del verde (da viridis), ossia ‘virolis’, terra del verde. Il vocabolario toponomastico espone le due teorie.
Verolanuova era allora un paese agricolo della bassa bresciana dove le stagioni segnavano i ritmi della gente: rigide le temperature invernali (ghiacciavano anche i fossi), l’autunno riempiva di nebbia case e prati e l’estate regalava un salutare sudore sui corpi di contadini, sauna benefica e naturale. Il papà Francesco, di professione sarto, si distingueva per l’arte stessa del vestire la gente e per un prestigio personale di correttezza e cortesia.
Nel 1783, Fortunato Antonio, aveva cinque anni, la famiglia si trasferì a Quinzano d’Oglio (BS). Si erano aggiunti altri fratellini e il papà doveva far fronte a nuove esigenze economiche. L’ambiente aperto e sereno dei campi aveva un particolare influsso su di lui; la contemplazione della natura donava nuove conoscenze alla mente e ardore al cuore. Cresceva in lui l’amore per l’osservazione dei fiori, delle piante, degli animali, che lo sospingevano anche a cogliere le melodie musicali della natura. Uomo di alta sensibilità artistica percepiva il bello nelle proporzioni, nei movimenti, nelle relazioni. Padre Maurizio era una di quelle persone che vedendo cadere, d’autunno, una foglia dall’albero e posandosi a terra, avrebbe potuto dire: ”Grazie, del ballo”. Scrive di lui un biografo che, già da ragazzino, “non conoscendo gli strumenti musicali, dagli arnesi di cucina, tentava di trarne un’armonia che, in qualche modo, fosse eco di quella che si sentiva dentro il cuore; raccoglieva fiori, farfalle, insetti d’ogni figura, e catalogava un domestico uso, classificando e ordinando secondo quelle similitudini grossolane che il senso percepisce”.
Il papà, vedendo il figlio Fortunato attento alla ricerca e allo studio, chiese ai sacerdoti del paese don Luigi Piozzi e don Pietro Pederzini di fargli scuola. Fortunato ne fu contentissimo, ma forse su di lui lasciarono una più profonda impressione i frati minori del Convento quinzanese, i quali venivano anche nella bottega del papà. La permanenza della famiglia a Quinzano durò cinque anni; nel 1788 i Malvestiti si trasferirono a Brescia in rua Confettora, nel popoloso quartiere di san Faustino, in cui le botteghe artigiane erano tante quante le porte di casa. Da quel momento Brescia diventò “la cara patria” per i Malvestiti.

La vocazione religiosa francescana

Fortunato frequenta il ginnasio liceo della città, mentre la sorella Filomena aiuta la mamma nelle faccende di casa.
Fortunato va via subito alla grande: un prodigio nell’apprendimento; si aggiudica due medaglie d’argento e gli vengono abbonati quattro anni di frequentazione della Scuola su otto regolamentari. Consegue la maturità classica. E la sua vocazione come nacque? Lo raccontò egli stesso: “prima come un senso di arcano, un’ispirazione, poi come una tendenza decisa e infine come un proposito deliberato di consacrasi a Dio”. Entrò nell’Ordine che aveva conosciuto fin da bambino, dei Minori Osservanti di san Francesco.
La grande centrale francescana a Brescia faceva riferimento al Convento di san Giuseppe: un gioiellino d’arte e di serenità. I padri francescani fino al 1471 fecero parte della provincia lombarda, con sede in Milano. Ma proprio nel 1471 la Repubblica Veneta incominciò ad esigere che la erezione di una nuova provincia francescana fosse contenuta nei confini della Serenissima; i giorni dei conventi del bergamasco, cremonese e bresciano passarono presto dal “sereno“ al “nuvoloso temporale”.

Esule a 19 anni

Il 29 settembre 1794, Fortunato entra in noviziato nel Convento di Quinzano, già meta di devote visite del piccolo Fortunato, ammaliato dall’edificio e dal paesaggio soffuso di pace, dalla calda cordialità dei frati.
Nel 1796 la Repubblica Veneta aveva espulso dal proprio territorio tutti i frati forestieri ed aveva soppresso tutti i conventi che non avessero almeno dodici religiosi.
Nel 1797 cade la Repubblica Veneta per l’irruzione delle forze della Rivoluzione francese, cambia il Governo per Brescia, ma peggiorano le leggi contro i religiosi. Un decreto del dicembre del 1797 obbliga i novizi a tornare alle loro case per aspettare i 21 anni prima di emettere i voti. Fortunato che ne ha 19, non abbandona la sua vocazione e si trasferisce nel convento di Ferrara.

a Ferrara

I superiori, che notavano in lui fermo carattere e vocazione chiara, lo inviano al Convento di Ferrara nello Stato Pontificio, quindi senza problemi per la residenza e per il permesso di soggiorno.
Verso la fine di febbraio 1798 Fortunato entra nel Convento dello Spirito Santo di Ferrara. Lo accompagna il papà, sempre presente e discreto nei passaggi chiave della vocazione del figlio, il quale alla fine del 1798, compiuti i 20 anni, emette la sua professione religiosa e assume il nome di Padre Maurizio; proprio in questo periodo a seguito delle cruenti battaglie della campagna napoleonica il convento di Quinzano viene distrutto.
A Ferrara Fortunato porta a termine gli studi di teologia; consacrato sacerdote, con dispensa del Papa Pio VII, a motivo dell’età, nella notte di Natale del 1800 celebra la sua prima Messa; padre Maurizio aveva 22 anni.

Una grossa sorpresa

Nell’agosto del 1801 era in viaggio per ritornare al convento di san Giuseppe nella sua cara e amata Brescia. Fa tappa a Verona nel convento di san Bernardino e qui lo raggiunge un ordine del Ministro Generale che lo destina a Roma. Aveva fatto voto d’obbedienza e ora ecco la prima sorpresa, un cambio radicale del suo personale programma. Padre Maurizio ritrova la calma nella preghiera e distende la sua volontà nella croce di Gesù.
Alla fine di ottobre del 1801 giunge a Roma e prende alloggio nella comunità del Convento dell’Aracoeli.

Docente di filosofia e teologia

Ed è subito nominato “lettore di filosofia” per i frati giovani. Il giovane professore di filosofia, 23 anni, incanta gli alunni per il suo sapere, la lucidità del pensiero, la chiarezza dell’esposizione. Tre anni dopo nel 1805 viene designato docente di teologia. Sorprende la capacità intellettuale in Padre Maurizio, la rapidità della carriera, il bruciare via le tappe della formazione, cadenzate da anni di studio. Padre Maurizio legge, apprende, ha una memoria di ferro ed un ordine mentale sublime. E mentre tiene la docenza ad alunni, talvolta più anziani di lui, si applica agli studi di archeologia. La Roma di allora consentiva calma, tranquillità, metodo, un clima ideale per chi voleva studiare e padre Maurizio frequenta biblioteche, partecipa a riunioni di cultura. Non si concede troppo benessere; si alza al mattino alle tre e incomincia la giornata con le lodi al Dio creatore, poi si immerge in studi umanistici e teologici, antropologici e attende anche allo studio dell’astronomia, della musica e della medicina.

Il primo incontro con il principe Luciano

Tra le diverse sue attività, essendo lui profondo conoscitore della lingua francese, rientrava anche l’accompagnamento dei pellegrini in visita alla città eterna.
Il principe Luciano Bonaparte, personaggio di alto intelletto, da poco trasferito a Roma a seguito dei burrascosi rapporti con il fratello Napoleone, si era recato alle catacombe di San Sebastiano per approfondire i suoi studi archeologici. Fu così che una mattina dell’autunno del 1806, si incontrarono per la prima volta due eclettici personaggi destinati a passare insieme il resto della loro vita; padre Maurizio aveva 28 anni, Luciano 31.
In un territorio di magia religiosa, nel silenzio sacro di un’aurea mistica, i due grandi spiriti trovarono immediatamente un’affinità completiva: la passione per l’archeologia, la storia, le lettere … si immersero nel passato e colsero energia per il presente, un alito corroborante nelle fatiche della vita.
Affascinato dalla profonda preparazione e umanità del francescano, il Bonaparte si rivolse così all’ordine dei Francescani per chiedere che padre Maurizio divenisse il precettore dei suoi figli, ma l’ordine oppose un cortese seppur deciso rifiuto, poiché non era nella regola monastica che un sacerdote vivesse fuori dal convento. Assolutamente deciso ad ottenere la collaborazione del frate, Luciano si rivolse allora a Papa Pio VII, il quale notificò ai Religiosi d’Aracoeli di assecondare il desiderio del senatore francese, devoto cattolico (e relatore della legge che aveva portato al concordato tra Chiesa e Francia), e di consentire a padre Maurizio di prestare la sua opera come educatore dei suoi figlioli, pur conservando lo spirito della sua regola. Padre Maurizio forzatamente e per obbedienza al Pontefice entrò nella famiglia di Luciano Bonaparte; finì per seguirne tutti gli spostamenti fino a diventare un vero e proprio membro della famiglia, il più stretto ed intimo amico del futuro Principe.
Abbiamo visto come Luciano Bonaparte, “frere insoumis” di Napoleone, nonostante il ruolo determinante svolto nell’ascesa al potere del futuro imperatore, per difendere le sue idee e la sua famiglia, si fosse ritrovato esule a Roma, sotto la protezione di Pio VII; come padre Maurizio, giovanissimo professore di filosofia e teologia, fosse stato comandato, in quegli stessi anni, a Roma presso il Convento dell’Aracoeli; infine come i due ebbero fortuitamente ad incontrarsi per iniziare così un cammino che li vide insieme per il resto della vita e gran parte di quella del francescano.

I due fratelli Napoleone e Luciano

Siamo alla fine del XVIII secolo, la Francia ha da poco conosciuto la rivoluzione e, Napoleone fratello di Luciano, sta per andar al potere. Luciano gli tira la volata.
Luciano è eletto Presidente dell’Assemblea dei Cinquecento e avrà parte preponderante nel colpo di stato del 18 brumaio 1799.
Nel novembre 1800 Napoleone nomina Luciano ambasciatore di Francia in Spagna, gesto diplomatico di Napoleone per allontanare Luciano da Parigi. Tra i due fratelli, Napoleone e Luciano, non gira bene il vento. Luciano rimprovera al fratello Napoleone un’intolleranza democratica: Napoleone ha chiare ambizioni dittatoriali, che Luciano, convinto repubblicano, non può avallare. Napoleone rimprovera a Luciano la sua convivenza, gennaio 1802, con la ventiquattrenne Alexandrine de Bleschamp vedova del banchiere Hippolyte Jouberthon, madre di una bambina di nome Anne. Alessandrina è donna semplice, di ceto basso, tenacemente innamorata del suo Luciano, donna attraente e solare; Napoleone vorrebbe che Luciano sposasse una donna dell’aristocrazia potente di Francia. La prima moglie di Luciano, Christine Boyer, era morta nel maggio del 1800, lasciando due figlie in tenera età Cristina ( n. 1795) e Carlotta (n. 1798).
Il primo figlio di Luciano e di Alexandrina nasce il 24 maggio 1803, Giulio Lorenzo Luciano, poi sempre chiamato, Carlo Luciano.
IL 25 maggio 1803 Carlo Luciano viene battezzato e nel contempo viene celebrato il matrimonio religioso tra Alexandrine e Luciano. Di tale evento Napoleone e tutta la famiglia Bonaparte ne furono messi a conoscenza soltanto nell’ottobre 1803, quando fu celebrato il matrimonio civile. Napoleone, soprattutto, non gradì la scelta di Luciano perché pensava per lui un matrimonio di interesse a fini politici.
L’urto tra i due fratelli Bonaparte divenne sempre più duro e portò Luciano ad abbandonare la Francia e, con la famiglia, si diresse a Roma.
Nel 1804 fu ospite dello zio il cardinale Fesch, a Roma. Successivamente acquistò il palazzo Nunez in Roma e la villa Rufinella nella zona di Frascati. Vita tranquilla e spensierata per Luciano.
Nel 1804 nasce Letizia.
Nel 1806 nasce Giuseppe Luciano, con problemi di salute; morirà dopo pochi mesi nello stesso anno. Un grande dolore fu per Luciano e Alexandrine. Il corpicino fu traslato successivamente nella Collegiata di Canino, dove Luciano fece eseguire dal Canova un bassorilievo raffigurante un angelo che solleva un bimbo.
Il 22 luglio1807 nasce la quarta figlia di Luciano, Giovanna.
Successivamente, nel 1808, si stabilì a Canino (VT), che il papa, Pio VII, nel 1814, farà assurgere a principato per lui. Con lui, padre Maurizio che alternerà la sua presenza tra il castello e il suo convento, poco lontano. Nel 1809, con l'annessione di Roma e degli stati pontifici alla Francia, fu praticamente costretto ad una sorta di arresti domiciliari ed obbligato a chiedere l'autorizzazione al governatore militare francese per qualsiasi atto.
Nel 1815, con la fuga di Napoleone dall’Elba e il ritorno dell’imperatore a Parigi, si riconciliò con il fratello, all’inizio dei Cento Giorni. Dopo Waterloo ritornò definitivamente a Roma.
Proscritto dai Borboni durante la Restaurazione, si stabilì definitivamente nella sua residenza di Canino. Il 21 marzo 1824 papa Leone XII lo insignì del titolo di principe di Musignano, una località accanto a Canino.
Uomo di lettere, fine pensatore, trascorse il resto della sua esistenza fra Canino e Viterbo, dove si dedicò a studi archeologici e alle collezioni d'arte. Luciano con amici e parenti si recava spesso nella zona di Rimini, Cattolica Senigallia, dove fu uno dei precursori di bagni di mare.

Napoleone Bonaparte

Nacque ad Ajaccio in Corsica il 15 agosto 1769 fu dapprima ufficiale d'artiglieria e quindi generale durante la rivoluzione. Scaltro uomo politico e geniale stratega militare, governò la Francia: fu Primo Console dal novembre 1799 (18 brumaio 1799) al maggio 1804 e Imperatore dei francesi, con il nome di Napoleone I, dal dicembre 1804 al 22 giugno 1815. Fu anche presidente della Repubblica Italiana dal 1802 al 1805 e re d'Italia dal 1805 al 1814.
Grazie a una serie di brillanti campagne militari e alleanze, conquistò e governò larga parte dell'Europa continentale, esportando gli ideali rivoluzionari di rinnovamento sociale e arrivando a controllare numerosi Regni europei tramite i membri della sua famiglia (Spagna, Napoli, Westfalia e Olanda).
La disastrosa Campagna di Russia (1812) segnò la fine del suo dominio sull'Europa. Sconfitto a Lipsia dagli alleati europei nell'ottobre del 1813, Napoleone abdicò il 14 aprile 1814 e fu esiliato all'Isola d'Elba.
Nel marzo del 1815, abbandonata furtivamente l'Elba senza che gli informatori delle potenze vincitrici si fossero accorti di quanto si preparava, sbarcò vicino ad Antibes e rientrò a Parigi «senza sparare un sol colpo», riconquistando il potere per il periodo detto dei Cento Giorni, finché non venne definitivamente sconfitto a Waterloo, il 18 giugno 1815. Trascorse gli ultimi anni di vita in esilio all'isola di Sant'Elena, sotto il controllo degli inglesi. Dopo la sua caduta, il Congresso di Vienna ristabilì in Europa i vecchi Regni pre-napoleonici (Restaurazione).
Fu il primo regnante della dinastia dei Bonaparte. Sposò Giuseppina di Beauharnais nel 1796, e in seconde nozze l'arciduchessa Maria Luisa d'Austria, l'11 febbraio 1810, dalla quale ebbe l'unico figlio legittimo, Napoleone Francesco, detto il re di Roma (1811-1832).
La sua figura ha ispirato artisti, letterati, musicisti, politici e storici, dall'ottocento sino ai giorni nostri.

Maestro e compagno di viaggio

Così padre Maurizio è entrato a far parte della famiglia di Luciano. Precettore lo ha voluto e nominato il Papa Pio VII e padre Maurizio mette in tale compito tutto il suo impegno e inizia a vivere con i piccoli “bonapartini” come un compagno di viaggio. L’intesa è rapida. Padre Maurizio appartiene al gruppo di persone che dovendo costruire una casa nuova non iniziano certamente dal tetto, neppure dalle fondamenta, ma dalle persone che dovranno viverci. Tenero e forte come un papà, Maurizio diffonde un’atmosfera favorevole a fondamento della convivenza.
Più tardi a Canino padre Maurizio e Luciano si dedicheranno, tra l’altro, agli scavi archeologici con rigorosità scientifica inusuale per i tempi.
L’archeologia è fatta di dati, come una casa è fatta di mattoni; ma un ammasso di dati non è scienza più di quanto un ammasso di mattoni sia una casa. Rigoroso e sistematico aprirà la mente dei suoi giovanissimi allievi al fascinoso mondo delle pietre vive e alla loro lettura scientifica ed umanistica.
Padre Maurizio non era mai sorpreso dalle diversità dei caratteri: non aveva paura del diverso o del nuovo, ma lo considerava semplicemente dono di Dio. Cercava di capire cosa gli veniva prospettato e gli argomenti fondamentali da individuare. Esaminava tutto con fine intendimento. E sceglieva il percorso più vicino non al buon senso ma alla carità umana e cristiana, alla volontà del Papa Pio VII.

Padre Maurizio Nunzio Apostolico

Quando la pressione e le minacce di Napoleone diventarono insostenibili e Luciano decise di lasciare l’Europa, per un principio di fedeltà alla chiamata di Pio VII e di servizio ai suoi alunni, padre Maurizio decise di partire con lui e la sua famiglia per gli Stati Uniti d’America. In quella occasione il Papa gli affida delle lettere relative alla nomina di alcuni Vescovi per le Diocesi d’America.
La partenza per gli Stati Uniti fu scelta obbligata per Luciano dopo gli ultimi drammatici tentativi di riconciliazione con il fratello imperatore. La Mamma Letizia aveva fatto l’impossibile per mettere la pace tra Napoleone e Luciano: anche le Mamme spesso non sono ascoltate.
Nell’agosto 1810 Luciano imbarca tutta la famiglia, e padre Maurizio è con loro, sul brigantino “Hercules” fornito dal cognato: il re di Napoli Murat insieme ad un vascello di scorta, ma il blocco navale costituito dalla marina inglese ferma il convoglio al largo di Cagliari. Fa prigionieri tutti i passeggeri e li trasferisce nel più sicuro porto di Malta in attesa delle decisioni del governo di Londra.
Nel dicembre 1810 Luciano, la sua famiglia ed accompagnatori compreso padre Maurizio (in tutto erano 40 i passeggeri imbarcati a Civitavecchia), vengono nuovamente fatti partire, a bordo della fregata “Le President” per l’Inghilterra.
E’ strano come a volte una strada che sembra girare da un’altra parte possa invece ricondurti alla meta.
Inizia così un periodo triste sconsolato per i Bonaparte ma non per padre Maurizio che si trovò di nuovo con tanto tempo a disposizione.

Prigioniero in Inghilterra

Grandi le dolcezze che riceveva impartendo educazione e cultura ai giovani figli di Luciano in cui gettava i primi semi che poi avrebbero dato grandi frutti nel campo della scienza con Carlo Luciano e, più tardi, nel campo religioso con la vocazione di Costanza.
In quegli anni di prigionia trascorsi nella cittadina di Ludlow e poi nella villa di Thorngrove tradusse dal francese il Poema Carlo Magno scritto da Luciano. E fu allora che estese le sue già vaste cognizioni nelle Scienze naturali, nell’astronomia (qui conobbe l’astronomo e musicista Wilhelm Herschel: scopritore del pianeta Urano), nella Poesia, nelle Lingue Orientali; si immerse nella filosofia e nella musica tanto che, autodidatta, ritornato a Roma, sarà acclamato “Maestro d’organo”. “Oh, sì, Signori, lasciatemelo dire - disse nell’Orazione funebre padre Grisostomo da Bergamo – quella avventurata prigionia cui lo guidava la Provvidenza divina, fu per lui un vero tesoro che arricchendo quell’intelletto già ricco di scienza e dilatando quella mente già si vasta, nel costituirlo degno di quell’eminente posto sociale cui si vedeva sublimato, anche fece rifulgere d’immacolato splendore le sue glorie così da renderlo grande presso Dio…”
Padre Maurizio parlando della sua prigione diceva argutamente: “Non è poi tanto stretta! Possiamo passeggiare dieci miglia per ogni verso, e la buona compagnia tutto addolcisce”.
Tra i suoi disagi padre Maurizio nota il dovere di mettersi in borghese “Spero in breve di riprendere il mio abito santo a costo di andar nelle Indie…”.
Alla sera, in camera sua, tolti gli abiti dei borghesi, indossava il suo semplice saio marrone. “Io sono come un pesce fuor d’acqua; siamo in pellegrinaggio; qual sarà il nostro destino io non lo so, né cerco di saperlo. Io me la intendo con i miei superiori e singolarmente col Santo Padre per essere più sicuro in coscienza”. Fortemente sentiva la nostalgia del chiostro e delle contemplazioni.
Dopo la disastrosa campagna di Russia, le sconfitte ed il confinamento all’isola d’Elba di Napoleone, per la mediazione del Papa Pio VII il principe Luciano la sua famiglia e padre Maurizio riacquistarono la libertà di tornare in Italia.
Finalmente sembrò a tutti di avere ritrovato la pace e la serenità della casa.
Al Convento di Aracoeli in Roma padre Maurizio fu accolto con grande festa.

Di nuovo a Parigi

Padre Maurizio ha vissuto nel presente il dono gioioso di sé stesso.
Ed è il tempo presente, il vero tempo che è con noi e in noi; è un luogo di incontro e di crescita. E’ come un laboratorio di sostanziosa speranza. Il presente è lo spazio della carità, dell’amore paziente, dell’amore visibile. Lui viveva il contatto relazionale come dimensione permanente del cuore. Andava nel passato per sentire il respiro dei viventi ed alimentare il presente.
Ed eccoci al nuovo viaggio.
Il 26 febbraio 1815 Napoleone riusciva a fuggire dall’isola d’Elba e Luciano decise di raggiungere il fratello in Francia: padre Maurizio accettò di accompagnarlo e poiché Luciano non aveva passaporto, si finse segretario di Padre Maurizio. Passarono per la Svizzera: “fu un viaggio disastroso, anche in slitta e a dorso di mulo che, più capriccioso della mula di don Abbondio, li rovesciò sul ciglio di un burrone”.

A colloquio con l’Imperatore Napoleone

Giunti a Charenton, i due si fermarono alcuni giorni. Fu qui che padre Maurizio, ebbe una delle più indimenticabili sorprese della sua vita: gli fu annunciato che l’imperatore Napoleone voleva vederlo.
Dopo Padre Maurizio partì munito di una lettera di Luciano per Napoleone e il fratello Giuseppe. Recatosi dapprima all’Eliseo dove risiedeva il principe Giuseppe, questi lo fece accompagnare dal suo aiutante di campo sig. Azara. E’ padre Maurizio che scrive: la freschezza del racconto non ha eguali, l’umorismo è finissimo, la storicità indiscussa.
“ Noi montammo in vettura e scendemmo alle Tuilleries, dove entrammo dalla piccola porta degli ufficiali. Il principe Giuseppe non c'era e l'imperatore nemmeno. Noi ci mettemmo dunque, nell'attesa, nel vano d'una finestra per conversare. Qualche minuto dopo un signore entra dalla stessa parte dove eravamo entrati noi e, attraversando la sala a grandi passi, senza dir nulla ad alcuno, nemmeno al domestico di guardia, apre la porta e passa direttamente nell'appartamento dell'imperatore. E' qualcuno, dissi a me stesso, che ha libero accesso. Egli era appena passato ed ecco un valletto esce dalla stessa porta e, squadrandomi dalla testa ai piedi, si avvicina all'uomo di guardia e gli dice all'orecchio:
— Che fa qui quel signore?
— E' un ordine del principe Giuseppe. Tutto ciò a parte, come nella commedia, con la mano destra alzata e largamente aperta, perché il suono delle parole non si propagasse e tuttavia sussurrando abbastanza forte per essere inteso da tutti; il valletto fa un gesto d'approvazione, ritirandosi.
Riprendo allora la mia conversazione con il signor Azara e gli domando:
— Come si chiama quel signore che è passato ora?
— Benjamin Constant.
— Lo conosco di fama.
Ma ecco un altro signore che passa come il primo, il cappello a soffietto sotto il braccio sinistro, frettolosamente, in silenzio; egli apre la porta ed entra dall'imperatore... Per questa volta pensavo, pensavo io, non si verrà a domandarmi perché sono qui, giacché a quest'ora là dentro lo sanno... niente affatto. Appena il signore è passato, un valletto si presenta e, come il primo, guardandomi e facendomi il gesto dell’ «a parte », dice con tono imperioso all'uomo dì guardia:
— Quel signore non deve essere qui.
— Ordine del principe Giuseppe.
Egli fa un cenno d'approvazione e si ritira.
— Chi è quest'altro signore che è passato? — domando al signor Azara.
— E' Fouché...
In questo momento si sente un rumore di gente che s'avvicina. Il valletto di guardia apre i due battenti dicendo: « L'imperatore sta per passare».
Effettivamente io vedo una lunga fila di cortigiani, con gli abiti ricamati, che entrano, camminando gravemente l'uno dopo l'altro... Il primo era già in fondo all'anticamera, quando un rumore di piedi, un psi! Psi! Si fa sentire in coda questa processione. Tosto ognuno si volta e tutti, tenendo il loro cappello nella mano, se ne vanno correndo per la stessa porta per la quale erano entrati.
— Che c'è? — dice Azara al valletto di guardia che chiudeva i due battenti.
— E' l'imperatore che, arrivando a quella porta, si è voltato per entrare nel suo appartamento dall'altra parte.
Infatti cinque minuti dopo la nostra porta si apre e mi si fa cenno d'entrare. L'imperatore era con il principe Giuseppe. Egli si volse verso di me e mi disse:
— Voi siete il padre Maurizio da Brescia?
— Sì, Maestà.
— La mia buona città di Brescia... bravi abitanti! Io ho formato gli spiriti degli abitanti di Brescia... Mi si dice che amiate molto il Papa.
— Non faccio che il mio dovere.
— Io ho avuto molti torti con il Papa... Ma ora tutto è cambiato... Avevo una benda sugli occhi! Il Papa!... E' un santo uomo il Papa... E' molto che lo conosco; ma lo conoscevo male... Avevo una benda sugli occhi. Io ho sempre creduto che il Papa fosse un uomo molto debole. Quando egli ha cominciato a resistermi, ho pensato che fosse a causa della sua debolezza e dei cattivi consigli di quelli che lo circondano; ho voluto isolarlo. Egli resisteva ancora. L'ho trattato duramente. Ho avuto torto. Avevo una benda sugli occhi. Sapete chi mi ha illuminato?... I Borboni. Quando ho visto che il Papa resisteva ai Borboni per l'affare dei vescovi... guarda... il Papa resiste ai Borboni come ha resistito a me!... Ho aperto gli occhi... Sì, il Papa è un uomo di coscienza. Si può minacciarlo di morte, egli non cederà se crede che la resistenza sia un dovere... Ora che ho aperto gli occhi, farò tutto per il Papa. Io riconosco tutti i suoi diritti, gli garantisco tutti i suoi Stati... Appena potrò mettermi in comunicazione con lui, gli farò la mia dichiarazione aperta e terrò la mia parola... Sì, terrò la mia parola!..
Parlando e insieme passeggiando, l'imperatore era arrivato più volte alla finestra; ma questa volta egli mise la testa contro il vetro in maniera da essere visto dal basso. Tosto si udirono le grida di «Viva l'Imperatore!» che risuonavano nei gradini e che sembravano rispondere a queste ultime parole dell'imperatore:
— Sì, io terrò la mia parola».
Fosse una mossa politica, fosse vero pentimento quello di Napoleone, sta il fatto che padre Maurizio si vide incaricato di un’ambasciata estremamente singolare e significativa, sia per il papa, che per lo stesso Luciano. Infatti padre Maurizio capisce che si tratta di una messinscena per indurre Luciano a tornare a Parigi, quando, il giorno dopo, legge l’articolo sul Moniteur che parla di “lui” scambiandolo per Luciano che avrebbe visitato l’imperatore in incognito alle Tuileries e nel palco teatrale dove non aveva proprio messo piede!

Le tribolazioni del viaggio di ritorno a Roma

Dopo l'incontro con Napoleone, padre Maurizio e Luciano andarono a Bellevue, sul lago di Ginevra, i due si separarono. Luciano raggiunse Parigi dove si riconciliò con Napoleone che gli diede il cordone della Legion d’Onore e lo nominò principe imperiale, mentre padre Maurizio lasciava la Francia per raggiungere Roma.
Continuiamo a leggere il resoconto di padre Maurizio:
“Quando, verso il mese di maggio 1815, il principe Luciano volle partire da Bellevue per andare definitivamente a Parigi, lasciò, fino a nuovo ordine, l’Abate Charpentier guardiano della piccola casa di Bellevue, che avevamo affittato. E io, subito dopo la partenza del principe, dovevo andare a Coppet da Madame de Staël, con la quale si era convenuto che mi avrebbe dato un conducente svizzero per accompagnarmi fino a Lucerna, dove mi auguravo che il Nunzio del papa Mons. Testaferrata mi avrebbe dato un nuovo passaporto per ritornare a Roma.
Il principe dunque partì un bel mattino di buon ora verso Parigi. Due ore dopo mi rimandò il suo corriere con una lettera nella quale mi diceva di restare a Bellevue fino a nuovo ordine, dato che aveva delle velleità di tornare sui suoi passi. Restai quindi a Bellevue con l’Abate fino a quando lo stesso corriere tornò da Parigi portandomi l’ordine di partire per Roma come avevamo convenuto.
Andai da Madame de Staël nel suo castello di Coppet; mi diede un conducente con il quale partii il mattino seguente per Lucerna.
Arrivato a Lucerna andai dal Nunzio Papale e venni ricevuto dal segretario con grande cortesia e dichiarazioni infinite, tuttavia non era possibile fornirmi il passaporto, perché dopo la raccomandazione del Cardinale de la Gomaglia con la quale si chiedeva di essere a mia disposizione, con l’ultimo corriere era arrivata una lettera da Genova, dove si trovava in quel momento il Santo Padre, nella quale si intimava al Nunzio di non fare nulla per il principe, né per le persone del suo seguito, che Monsignore era nello sconforto e profondamente afflitto.
Presi dunque la decisione di continuare la mia strada con lo stesso passaporto senza poter ottenere che venisse vidimato neppure dalla polizia del luogo, che protestò che non si poteva fare nulla senza il Nunzio. Attraversai il lago in barca fino a Altdorf fermandomi soltanto per celebrare la messa in una bella chiesa costruita su una roccia, famosa per una statua di Guglielmo Tell nella piazza antistante, (Era la domenica della Pentecoste) poi il monte S. Gottardo a cavallo fino a Bellinzona, e da lì con una vettura fino a Milano.
Al confine tra il Canton Ticino e il Milanese mi venne chiesto il passaporto, e venne perquisita la mia piccola valigia; poiché non venne trovato nulla di sospetto fui lasciato passare, solo mi fu trattenuto il passaporto e mi fu data una carta di sicurezza, con la quale mi veniva intimato di presentarmi alla polizia di Milano per riprendere il mio passaporto. Quando mi presentai alla polizia di Milano mi fecero salire dal Commissario; questi volle sapere che ne era stato del mio segretario; gli risposi che era andato a Parigi e che io tornavo a Roma. Volle sapere chi era questo segretario. Gli dissi francamente che era il Principe di Canino. Allora ebbe l’aria di essere scandalizzato dal fatto che avessi prestato il mio nome per coprire un personaggio di tale importanza. Lo lasciai tranquillamente dire e quando ebbe finito il suo sermone, lo ringraziai dell’interesse che dimostrava per il mio comportamento, assicurandolo che non c’era nulla di irregolare nella vicenda e che il passaporto con il quale viaggiavo era legalmente rilasciato dal governo di Roma dietro esibizione di un altro simile, che mi aveva rilasciato un anno prima Lord Castlereagh a Londra e con il quale ero passato da Milano un’altra volta con il Principe tornando dall’Inghilterra in Italia. Egli suonò un campanello e chiese a un commesso il registro del mese di maggio 1814, dove trovò scritto che il padre Maurizio da Brescia aveva un segretario e un corriere proveniente da Londra diretto a Roma.
Il Commissario mi disse che ero in regola, tuttavia non poteva lasciarmi continuare il mio viaggio e dovevo restare Milano fino a nuovo ordine. Tornai al mio albergo dove subito dopo un ufficiale della gendarmeria venne con un commesso della polizia per perquisire di nuovo la mia valigia. Non trovò che due lettere sigillate , una indirizzata a Papa Pio VII, l’altra al Cardinale Pacca segretario di Stato; l’ufficiale si credette in dovere di trattenere e portare via le due lettere. In seguito ricevetti la visita di mio cugino Bacciocchi, che mi offrì la sua casa, che accettai, e andai a stabilirmi inviando il mio indirizzo alla polizia. Mio cugino era computista (contabile) del Duca Melzi, e aveva delle relazioni con persone informate degli affari del governo per informarmi confidenzialmente di ciò che succedeva nei miei riguardi. È grazie a lui che ho saputo che le due lettere trovate sulla mia persona erano state portate al Consiglio. Che la maggioranza voleva aprirle come sospette senza aver riguardo degli indirizzi. Ma uno dei consiglieri, il Marchese Ghisilieri che conosceva personalmente Pio VII, propose un espediente che venne adottato. Il governo aveva intenzione di inviare qualcuno a Genova per rendere omaggio al Papa e il Marchese si offrì di recarvisi egli stesso e presentargli questa lettera del principe Luciano, nella speranza che il Papa ne comunicasse il contenuto. Ma il Papa aveva posato la lettera sul tappeto senza leggerla, dicendo soltanto: Ah! Il principe Luciano? È una persona fidata, e che ci è molto affezionata; poi aveva volto la conversazione su altri soggetti, di modo che il Marchese tornò senza aver saputo precisamente ciò che conteneva la lettera.
Dopo il ritorno del Marchese venni chiamato alla polizia; mi fecero subire un lungo interrogatorio, di cui non ricordo più, mi ricordo solo che si tornava spesso, e con insistenze per sapere se il principe aveva ricevuto una commissione dal Papa e di quale natura poteva essere la missione del Principe. Al che io risposi sempre che conoscevo perfettamente la devozione del principe per il Papa, e la bontà del Papa nei confronti del principe, ma che ignoravo completamente che avesse ricevuto una missione speciale, né di quale natura essa potesse essere. La sera stessa un commesso della polizia venne a stabilirsi da me e mi annunciò che aveva l’ordine di sorvegliarmi a vista. Questi non mi lasciò più fino a quando un Brigadiere (M. Guerra) venne a prendermi per condurmi in Austria.
Facemmo il viaggio in calesse e in postazione. A Chiari, grosso paese di Brescia, mentre venivano cambiati i cavalli, il mio Brigadiere scese un momento; subito fu accostato da numerose persone curiose di sapere chi fosse il prigioniero!!! Egli mise il dito sulle labbra mormorando piano “è il confessore di Napoleone”. E partimmo tra la folla che accorreva da tutte le parti. A Brescia mi fu permesso di salutare mia sorella e mio fratello, che erano già venuti a trovarmi a Milano, e continuammo la nostra strada fino a Klagenfurt, capitale della Carinzia.
A Klagenfurt il Brigadiere mi consegnò al Commissario di Polizia il Colonnello Hofmann , che mi alloggiò nel convento chiamato dei Francescani, che era attualmente abitato da dei Benedettini professori del liceo. Questi professori erano dei monaci molto eruditi venuti dal Gran Monastero Juppiné della foresta nera con il loro principe abate, che risiedeva ora a S. Paul in Frisia. Essi erano grandi appassionati di musica e avevano un buon pianoforte. Durante il primo mese non potevo uscire né solo né accompagnato e la mia passeggiata era in giardino. Monsignor il vescovo principe di Salm alcuni giorni dopo il mio arrivo volle vedermi, e poiché io non potevo uscire mi ricevette nell’appartamento del Superiore del Convento. Egli si interessava molto al principe Luciano ed era contrariato che si fosse recato al senato a Parigi soprattutto in un momento così contrario alla politica Napoleonica. Venni alloggiato nella Biblioteca, perché era la sola stanza che avesse delle grate alle finestre. Ma un mese dopo quando ricevetti il permesso di uscire, e di fare delle visite, mi venne data una camera come gli altri monaci. Qualche volta si leggevano dei giornali tedeschi alla fine del pranzo e dietro ordine del Superiore venivano tradotti in latino gli articoli che potevano interessarmi. È così che seppi che il principe Luciano era prigioniero a Torino, che la principessa a Roma aveva appena partorito un maschio, che il Cardinale Fesch l’aveva battezzato e chiamato Pierre Napoléon. Verso l’inizio di dicembre 1815 il Colonnello Hofmann mi annunciò che ero libero. Mi fornì egli stesso un vetturino che mi condusse fino a Trieste. A Trieste il commissario di Polizia, al quale ero stato raccomandato dal Colonnello Hofmann mi affittò un posto su di una nave con la quale arrivai ad Ancona. Ci misi dieci giorni da Trieste ad Ancona perché il vento non era favorevole; Arrivato al porto di Ancona trovai l’ordine del governo che prescriveva quindici giorni di quarantena per le navi provenienti da Trieste, a causa di alcuni casi di peste che si erano manifestati in Dalmazia. Questo ordine era arrivato due ore prima di me. Fu dunque necessario restare quindici giorni al Lazzaretto. Dopo di che presi un posto nel corriere e me ne tornai a Roma, dove seppi che dovevo la mia libertà alle istanze del Principe, e della principessa Luciano presso il Ministro d’Austria, il Conte di Lebzeltern, al quale mi affrettai a presentare i miei ringraziamenti. Alcuni giorni dopo il mio arrivo a Roma, il padre Generale d’Aracoeli mi chiamò e mi disse da parte del Papa, che il Santo Padre era stato informato della mia condotta e che era contento di me.

Nuovamente a Canino

Ed eccolo nuovamente a Canino tra i suoi “bonapartini” cresciuti ancora di numero. Padre Mimì lo chiamava Carlotta, la primogenita di Luciano.
Nell’insegnamento di Padre Maurizio erano presenti un trattato con nozioni di scienze fisiche e naturali, forse preludio alla vocazione di Carlo Luciano nel divenire naturalista di fama mondiale. Sono stati trovati in archivio manoscritti e appunti di storia di Corsica e di Francia, la monarchia dei persiani, elementi di storia della filosofia, di lingua francese, geometria, matematica e geografia; lezioni di musica e di armonia con un trattato di musica elementare e un metodo per imparare a leggere la musica.
Padre Maurizio al mattino donava a tutta la casa patrizia un sorriso, lungo la giornata diffondeva un amore percettibile, lievemente luminoso; era convinto del detto etiopico”con il tempo e con la pazienza anche un uovo cammina”.

Il Precettore

Fu nell’atmosfera carica di fede e di storia delle catacombe di San Sebastiano a Roma che, nel 1806, si svolse il primo incontro tra Luciano Bonaparte e padre Maurizio. Alla fioca luce delle torce che illuminavano i cunicoli, padre Maurizio, che fungeva da guida, narrava con competenza e passione gli avvenimenti del passato e le vite dei martiri che si erano immolati per non rinnegare il proprio credo. Luciano rimase profondamente colpito dalla tranquilla serenità e nobiltà d’animo che irradiava dal frate che già allora godeva fama di studioso e uomo retto e nobile.
Desideroso di conoscerlo meglio, Luciano Bonaparte invitò padre Maurizio nella sua residenza romana, la Rufinella. Questi incontri diedero modo a Luciano di rafforzare il proposito che andava germogliando nel suo spirito: il desiderio che i suoi figli crescessero accompagnati nel loro percorso di studio e di vita da uno spirito elevato quale aveva intuito nel frate conosciuto a San Sebastiano.
Fu così che padre Maurizio iniziò la frequentazione della casa dei Bonaparte, come scrive egli stesso: “(…) allorché venni chiamato per dare lezioni di musica ai figli di Luciano, essendo il precettore ammalato (…)”. In quel momento vi andò certamente solo per quelle lezioni di musica, ma successivamente Luciano si rivolse al padre Guardiano di Aracoeli per chiedere che gli fosse consentito di ospitare in casa sua padre Maurizio, quale educatore dei figli. La risposta, seppur cortese fu negativa.
Luciano non era certo avvezzo a ricevere rifiuti! Si rivolse perciò a Papa Pio VII e il buon frate entrò nella famiglia di Luciano Bonaparte.

Le prime lezioni

Certamente le prime lezioni che padre Maurizio diede furono quelle di musica e i suoi primi allievi furono: Carlotta, Cristina e Anna Ippolita (nata dal primo matrimonio di Alessandrina). Ci è giunto infatti un metodo per imparare a leggere la musica e un trattato di lezioni di armonia, riordinate nel 1859 da mani pazienti nella pace del convento di San Giuseppe in Brescia.
Carlotta, affettuosamente chiamata Lolotte, divideva con la sorella Cristina, chiamata Lilì, i giochi spesso vivacissimi nei parchi della Rufinella. Molto si somigliavano le sorelle anche per l’arguzia gentile che sapevano così bene usare. Amavano particolarmente la campagna e si accostavano agli animali con molta dolcezza. Carlotta aveva saputo cogliere molte simpatie nel suo breve soggiorno alla corte di Parigi, inimicandosi però alcune persone per quella sua capacità di mettere in ridicolo tante situazioni, non ultima la figura stessa dell’imperatore e di Giuseppina. Per cui si stimò molto più opportuno rispedirla al padre.
Nel tempo si aggregavano alle lezioni i nuovi nati di Luciano e Alessandrina, aumentarono anche gli studi e le lezioni che padre Maurizio preparò per la sua “scolaresca”.

La scolaresca

La nuova vita di padre Maurizio fu così intessuta fra il convento dell’Aracoeli e la dimora di Luciano. Egli alternava le sue lezioni di filosofia e di teologia ai novizi con quelle ai “Bonapartini” in Roma o nelle ville vicine. Quando egli doveva recarsi fuori della città, rientrava la notte al convento dei francescani più vicino. Solo raramente si trattenne la notte in casa di Luciano, continuando però anche là il tenore di vita al quale aveva ormai fatto abitudine: pochissime ore di riposo, frequenti veglie dedicate allo studio, alla meditazione, alla preghiera.
Fu così che padre Maurizio nella sua ben nota organizzazione mentale allestì un vero e proprio programma scolastico, coadiuvandolo con veri e propri “bigini”, di matematica, geometria, scienze, storia, e quant’altro potesse essere utile alla sua sempre più nutrita scolaresca, dove ai figli di Luciano ed Alessandrina, nelle loro vacanze romane, si aggiungevano altri nipoti tra cui il futuro Napoleone III, terzogenito di Luigi Bonaparte, fratello di Luciano.
Carlo Luciano, il primogenito di Luciano e Alessandrina, un ragazzo sveglio e pronto che amò particolarmente la musica e le scienze (zoologo di fama mondiale) e più tardi la politica. Nel 1839 ebbe l'intuizione e fu il promotore e l'organizzatore dei primi "Congressi degli Scienziati Italiani". Questi congressi annuali, durarono fino al 1849, quando l'Italia era ancora un insieme di stati e contriburono a coinvolgere tutta la comunità scientifica diffusa sul territorio della penisola, in un periodo storico caratterizzato da una delicata situazione politica e da un crescente sviluppo del senso di identità nazionale. L'azione degli scienziati e degli intellettuali assunse ben presto un carattere di forte impegno culturale, politico e civile.
Luigi, fu un allievo intelligente ed affezionato e dalle lezioni di padre Maurizio trasse ottimi principi ed utili insegnamenti. Dopo un periodo alquanto turbolento nei primi anni della giovinezza, si diede a studi severi e visse a lungo in Inghilterra dove ricordava spesso il vecchio maestro.
Pietro: una vita turbolenta, dissoluto e prepotente, così Leonardo Sciascia nelle sue cronachette: “… conoscete il principe Pietro Bonaparte? È un miscuglio bizzarro di principe romano e corso, in fondo buon diavolo, ma senza cervello affatto. Alcuni anni sono, con un freddo vivissimo, quando le strade erano coperte di neve, il suo cameriere fu colto da un attacco di colera. Il principe saltò sopra un cavallo non sellato ed alla prima voltata il cavallo cadde ed egli si ruppe una gamba. Questo vi dipinge l’uomo …”. Pietro, ebbe un osservatore privilegiato e di spirito sagace: lo scrittore Stendhal. Console francese a Civitavecchia dal 1831, visitò spesso Luciano e Alessandrina nella vicina Canino. Era un ammiratore di Luciano e aveva sviluppato dei sentimenti per Maria, la giovane e bella figlia dei principi di Canino La combinazione esplosiva di ideali romantici, temperamento passionale e spirito ribelle di Pietro, confluirono nel personaggio di Fabrizio Del Dongo, il protagonista del romanzo “la certosa di Parma”, in cui anche un altro personaggio, Padre Maurizio, servì da traccia per il saggio e originale astronomo, l’abate Blanès, tutore di Fabrizio.
Dei suoi allievi che dalle lettere trovate, sappiamo tutti molto affezionati al loro istitutore, tre in particolar modo gli furono vicini sia negli anni della loro giovinezza, sia più tardi, quando ognuno intraprese la propria strada: Carlotta, Luigi e Costanza.

A proposito di Stendhal

Come ampiamente descritto in tante biografie di Luciano. Padre Maurizio, proprio per la frequentazione di Canino, ha anche l’occasione di incontrare ed intrattenersi in dotte discussioni archeologiche con lo scrittore Henry Beyle, più noto come Stendhal, che lo ricorda come “le vénérable père Maurice”.
Stendhal: (Grenoble, 23 gennaio 1783 – Parigi, 23 marzo 1842), i suoi romanzi più noti Il rosso e il nero (1830), La Certosa di Parma (1839) e l'incompiuto Lucien Lauwen, fanno di Stendhal, con Balzac, Hugo, Flaubert, Maupassant e Zola, uno dei maggiori rappresentanti del romanzo francese del XIX secolo.
Nel 1831 venne nominato console francese negli Stati pontifici, la cui sede era a Civitavecchia.
Colui che aveva vissuto a Parigi, a Vienna, a Milano e a Mosca, servendo l'imperatore non poteva sentirsi a suo agio a Civitavecchia, cittadina di poche migliaia di abitanti. Si rattristava, gli mancavano le amicizie, le conoscenze e le conversazioni di queste città e dei loro palazzi.
L'insofferenza per i suoi impegni di console lo indusse ad allontanarsi più volte da Civitavecchia e a chiedere diversi congedi, fortunatamente c'erano i francesi, alcuni nelle vicinanze, come Luciano Bonaparte e la sua famiglia, altri di passaggio, come Alexandre Dumas o il filologo Jean-Jacques Ampère, figlio del noto scienziato.
Scrive Bruno Pincherle, medico triestino cultore di studi Stendhaliani: “… Fin dalla sua prima visita a Canino, Stendhal dovette ricredersi a proposito del giudizio che aveva espresso sul monaco, di cui aveva parlato in maniera un po sprezzante in una lettera ad Ampere. Era sempre stato tenacemente anticlericale (e il suo soggiorno a Roma non gli aveva certo fatto cambiare idea), tuttavia era anche propenso a fare delle eccezioni. Gli accadeva talvolta di respirare con disgusto «l’odore di monaco» e di trovare che i monaci avessero «un’aria atroce», ma era altrettanto capace di godere della bontà e della profonda erudizione di padre Maurizio e di apprezzare la fortuna che aveva avuto, lui semplice dilettante, di avere incontrato un colto archeologo disposto a rivelargli i segreti degli Etruschi”…
…”In alcune pagine redatte in quegli anni (che Colombo, l’editore, intitola «Le tombe di Corneto» e datata al marzo 1837, pubblicate postume), si percepisce chiaramente l’influenza della lettura del «Museum Etrusque» e più ancora delle conversazioni con padre Maurizio”…
“...ma è probabile che le conversazioni tra il console e il monaco non si siano limitate agli scavi.
La copia de «La storia della pittura in Italia» che Stendhal offrì al reverendo padre, non riporta alcuna annotazione ma vigorose limature sui margini in tre punti. Gli «stendhaliani scientifici» ci guarderanno torvi e ci faranno notare che le limature si assomigliano tutte. Pensiamo tuttavia che talvolta si può lasciare libera l’immaginazione e che il primo a perdonarci sarebbe certamente Stendhal stesso”.
Da: Cronache italiane – Le tombe di Corneto, di Stendhal “... Conosco undici interpretazioni sull’origine dei vasi dipinti e delle tombe etrusche celate sottoterra. La più assurda, mi pare, sia quella che suppone che tutto ciò sia stato fatto sotto Costantino e i suoi successori. L’interpretazione che adotterei volentieri e che propongo al lettore, pur consapevole che è purtroppo priva di prove sufficienti, è quella che mi è stata insegnata dal venerabile padre Maurizio, che, per dieci anni, ha diretto numerosi e importanti scavi. Quest’uomo venerabile, di un’eccellente amabilità e che conosce tutti gli storici antichi…”.

Verso nuove esperienze

La lunga amicizia tra Padre Maurizio e Luciano Bonaparte, due uomini così diversi nel carattere e nelle origini che davvero seppero tanto stimarsi ed affiatarsi, condividendo momenti di ansia e di amarezza senza che il profondo sentimento che li legava venisse mai meno: un’amicizia straordinaria come raramente è dato trovare. Nella vita elegante e spesso sontuosa che si conduceva nei palazzi di Luciano, il ruvido saio del francescano portava una nota insolita, nuova e soave, di bontà e di raccoglimento. Spesso egli doveva calmare l’indole di Luciano irato contro il fratello Napoleone e, seppur talvolta a torto inascoltato, egli era sempre il suo miglior consigliere, paziente e disinteressato.
Negli anni che seguirono, Padre Maurizio, pur non tralasciando nulla dei propri impegni quotidiani, si dedicò, spesso con lo stesso Luciano, con maggiore dedizione, a quelle attività già coltivate in passato quali l’archeologia, l’astronomia, la medicina, la musica, le scienze naturali e la veterinaria.
Questi interessi si intrecciavano tra di loro e non vi è mai stato momento, nella sua vita, dove queste attrazioni siano venute meno.

Padre Maurizio Astronomo

Siamo nell’ottobre del 1828 e, alcuni mesi prima, “agenti infedeli” avevano venduto alcuni rari reperti archeologici trovati sul territorio di Canino. Il fatto aveva destato l’interesse della principessa Alessandrina che, in sua presenza, fece aprire gli scavi alla Doganella presso il Ponte della Badia a Vulci. Gli scavi portarono alla scoperta di oggetti preziosi. La principessa – continua il testo di archivio – indicò il punto del nuovo scavo al piede del Monte Cucumella, nel piano detto Cavalupo, e ne tracciò ella stessa il circolo di confine. Il principe Luciano, nel frattempo, era nella tenuta di Senigallia impegnatissimo a completare l’esplorazione astronomica della zona zenitale con il telescopio di Wilhelm Herschel; nel suo libro, Museum Etrusque, Luciano dice espressamente “perfettamente assistito dal mio collaboratore ed amico il molto Rev.do Padre Maurizio da Brescia”.
Ma, da dove era scaturito l’interesse per l’astronomia? Certamente, nel loro intimo, questa attrazione c’era sempre stata ma si manifestò con slancio durante la loro prigionia in Inghilterra, dove, avendo Luciano fatto costruire nel parco di Thorngrow un piccolo osservatorio, iniziarono a coltivare più avidamente l’interesse per la volta celeste.
In uno scambio di corrispondenza avvenuto nel dicembre del 1849, tra la principessa Alessandrina e padre Maurizio, divenuto a quel tempo, la memoria storica della famiglia, comunica alla Principessa vedova di Luciano Bonaparte alcuni dati:
o Sul pianeta scoperto da Herschel, chiamato prima Georgium Sydus, poi pianeta Herschel e dagli astronomi Uranus;
o sul telescopio da 10 piedi di lunghezza e 18 pollici di diametro, con cui l'Herschel aveva, scoperto Uranus e che nel 1814 aveva venduto al principe Luciano. Questo telescopio, a due specchi metallici, che di originale non ha che il grande specchio e la curvatura parabolica anziché sferica, ciò che gli conferisce una potenza di penetrazione superiore a quelli di Newton. Inizialmente era stato sistemato a Roma su una grande terrazza, poi a Viterbo e infine a Senigallia;
o sul telescopio di 7 piedi inviato da Herschel al principe Luciano;
o sull’altro da 22 piedi inglesi di lunghezza, di cui però Herschel aveva inviato soltanto il grande specchio e gli oculari, ed è quello stesso che, montato provvisoriamente, era servito ad osservare circa 600 stelle sullo zenit di Senigallia. Il prezzo complessivo dei tre telescopi gli pare che fosse di 2000 piastre romane.”

L’astronomo e i neofiti

Personaggio ormai noto nel mondo dell’astronomia Herschel conobbe Luciano Bonaparte e padre Maurizio durante la loro prigionia in Inghilterra tra il 1811 e il 1814, certo l’affinità tra persone così diverse, ma simili nella ricerca e nella raffinata cultura delle arti, dalla musica alle scienze ed alla stessa astronomia, fece sì che si creò uno stretto rapporto tra loro e fu proprio in quegli anni che il principe Luciano valutò la possibilità di acquistare dallo stesso astronomo, proprio il telescopio con cui questi scoprì il pianeta Urano.
Negli anni che seguirono, “i nostri” iniziarono le loro esplorazioni astronomiche, dapprima nei cieli romani, poi in quelli viterbesi per poi trovare la collocazione definitiva nella casa di campagna, sulla collina del Cavallo, sopra Senigallia.

La Zona Zenitale di Senigallia

Una lettera del 15 febbraio 1843 padre Maurizio spiega i fatti alla principessa Alessandrina, che chiede lumi a proposito della nota del Principe sul “Museum Etrusque”:
“La principessa di Canino, vedova di Luciano Bonaparte, mi chiede cos’è la zona zenitale di Sinigallia, di cui il principe suo marito si occupava e alla quale fa cenno nel suo Museum Etrusque pag. 13.
Rispondo che è un progetto amato, di cui il principe si è occupato con ardore e piacere per qualche tempo, e che ha abbandonato con rammarico nel dicembre 1828 per seppellirlo negli scavi di Canino.
Una zona zenitale? In verità ci volevano delle circostanze molto particolari per far nascere un’idea simile. E credo mio dovere far conoscere le circostanze precise che hanno dato origine a un progetto che, senza di esse, avrebbe l’aria di essere una sciocchezza.
Il principe possedeva dei buoni strumenti astronomici, tra i quali un cannocchiale meridiano, e un cerchio ripetitore di Dollond; dei pendoli a compensazione di Le Roy, e di Berthoud, un cronometro di Brockbancs, tre telescopi della fabbrica di Herschel, uno di sette piedi, uno di dieci, uno di venti. Tutti questi strumenti, erano ben montati e correttamente posizionati, eccetto l’ultimo, per il quale il principe non aveva ancora trovato una posizione adatta. Già da qualche anno il principe possedeva questo telescopio Herschelliano di 20 piedi, ma per montarlo ci voleva un tubo proporzionato con il suo movimento orizzontale e verticale, come avevano gli altri telescopi. E di questo noi non avevamo che il grande specchio e gli oculari. Avremmo potuto ordinare i montanti, ma dove sistemare questa grande macchina? Il desiderio di provare in un modo qualsiasi la forza penetrante di questo telescopio ci fece poggiare in piano lo specchio in un angolo dell’osservatorio quasi a pianterreno, e forando il soffitto e il tetto applicammo un tubo di 20 piedi verticale fisso, che partendo dallo specchio saliva fino a un secondo piano; sistemando poi sul bordo del tubo l’oculare, potemmo osservare, come in un pozzo, le stelle che passavano allo zenit. Il piacere di vedere un numero prodigioso di stelle scorrere senza interruzione successivamente attraverso il filo verticale, fu la nostra ricompensa. L’appetito vien mangiando! Chi ci impedisce di tracciare una zona zenitale dal nostro osservatorio? Occorre, per questo, assicurarci che le stelle che passano sul filo dell’orizzonte siano realmente nel nostro zenit; drizzare il nostro tubo il più esattamente possibile verso lo zenit! Noi l’abbiamo fatto, ma questo non ci bastava. Bisognava prima di tutto tracciare la nostra zona zenitale con il cannocchiale meridiano, confrontare le nostre stelle con quelle dei cataloghi più accreditati e più ricchi: Delalande, Bode, Piazzi; determinare il più esattamente possibile la nostra latitudine, e la nostra longitudine; riconoscere l’identità di un certo numero di stelle dei cataloghi nel cannocchiale meridiano, e nel tubo verticale; alle stelle osservate da altri intercalare tutte quelle che l’osservazione ci avrebbe dato in più; ecco il compito.
Ma quale sarà l’utilità di una zona zenitale di numerose migliaia di stelle, che nessuno potrebbe né vedere, né confrontare, né verificare senza uno strumento della stessa portata? Non saprei proprio. Quello che so bene è che questo ci occupava, ci eccitava, ci divertiva, ci esaltava, ci faceva girare la testa. Abbiamo dato al nostro tubo verticale un piccolo movimento da nord a mezzogiorno, in modo di guadagnare un mezzo grado di spazio. E per godere subito dello spettacolo che si presentava ai nostri occhi e per calcolare approssimativamente il numero di stelle che avremmo dovuto descrivere nella nostra piccola zona, noi abbiamo adattato al filo verticale dell’oculare un vatellier, i cui denti e gli spazi tra un dente e l’altro ci davano approssimativamente, e nello stesso tempo il passaggio al filo ci dava l’ascensione destra. Questo meccanismo, benché raffinato, sarebbe stato ancora troppo grossolano per accontentare degli astronomi. Ma questo bastava per contare le stelle e assegnare loro sulla carta uno spazio simile a quello che esse occupavano nei telescopi. È così che noi abbiamo potuto osservare più di mille stelle in una zona di un mezzo grado di larghezza in sei ore di tempo… stelle di una tale piccolezza che si può ben dire che non esistono in alcun catalogo, per la semplice ragione che nessun catalogo è stato tracciato con uno strumento di tale portata.
Eravamo entusiasti delle nostre osservazioni quando la notizia degli scavi di Canino, così felicemente aperti dalla Principessa, sospese i nostri lavori. Tutte le osservazioni devono trovarsi nei quaderni del principe. Ma non credo che ce ne siano di così importanti da meritare la pubblicazione. Tutti questi lavori non sono stati che semplici analisi degli studi preliminari. Le osservazioni vere e proprie dovevano iniziare con la bella stagione nel 1829 e concludersi nel 1830 per essere verificate nel 1831. Tutte le osservazioni dovevano essere ordinate con tutte le regole e pubblicate con l’adattamento al 1830. Così penso che sarebbe contrario alle intenzioni del principe pubblicare delle analisi incomplete che egli stesso aveva abbandonato da dodici anni, quando la morte ce l’ha portato via.
Possa questa nota dare desiderio a qualche astronomo di possedere uno strumento simile e di servirsene per tracciare una zona zenitale! Io posso assicurarlo fin d’ora che non vi è posizione più confortevole che quella di osservare le stelle zenitali stando seduti comodamente, e le braccia appoggiate sul bordo del tubo, come sul ciglio di un pozzo, l’occhio naturalmente e senza sforzo appoggiato sull’oculare, l’orecchio teso al contatore dapprima ben regolato, con un segretario che scrive sotto dettatura tutto ciò che succede, e un ragazzo che conta a voce alta i secondi, senza muoversi, senza affaticarsi, ed ecco una processione di stelle, di mondi nuovi, che passano davanti ai vostri occhi, senza mai lasciare il campo vuoto … ecco un gruppo di stelle bianche,.. scrivere a margine “i bianchi sorrisi di Madame” esse passano al verticale: la prima al nord tre denti: la seconda a sud tre e mezzo: la terza rasenta il filo orizzontale: attenzione … là … là … là … Ecco due stelle che sembrano un paio di occhiali … scrivere: “gli occhiali del principe”. Ecco un gruppo di nebulose che sembrano una parrucca: scrivere “la parrucca di padre Boscovich” … Bisogna tuttavia stare attenti che nulla cada nel pozzo. A questo scopo abbiamo preso le nostre precauzioni e consiglio a chiunque voglia occuparsene, di fare altrettanto”.

L’atlante stellare

Da quanto dice Padre Maurizio nessun catalogo ragionato sulle esplorazioni astronomiche è mai stato fatto, salvo una serie di appunti presi allo scopo di essere in seguito analizzati per le osservazioni e le successive verifiche, che avrebbero dovuto portare alla conclusione ed all’eventuale pubblicazione di questo catalogo stellare… ma poi, le cose andarono in modo diverso…

Padre Maurizio poeta

Negli anni di prigionia anche Luciano ebbe la possibilità di dedicarsi alle occupazioni che più amava: il teatro, la musica (ancora oggi la casa di Ludlow, nel Galles, è chiamata, tra gli abitanti “la casa della musica”) ed il completamento del poema epico in 24 canti “Charlemagne, ou L’Eglise Dèlivrèe”, iniziato nel periodo trascorso a Villa Tuscolana a Frascati e quindi durante la prigionia a Malta.
Mentre Luciano andava avanti nel suo componimento, Padre Maurizio lo seguiva con la traduzione in italiano, portandolo dalle ottave originali alla terza rima. Tra le carte di padre Maurizio sono stati ritrovati quei fogli autografi che riportano il frontespizio del libro, la dedica a Pio VII (di ritorno a Roma dalla prigionia, nel maggio del 1815 Luciano fece stampare l’opera con la dedica al Santo Padre), la prefazione, gli argomenti dei 24 canti e la trasposizione in italiano dei primi sei canti.
Si discostano dalle altre pagine, quelle contenenti la dedica a Pio VII: qui notiamo diverse correzioni che fanno pensare ad uno scritto contestuale se non in preparazione di quello che fu poi la stesura definitiva data alle stampe; correzioni di impostazione, evidentemente fatte insieme a chi poi avrebbe dovuto apporre la firma: Luciano Bonaparte.
Alcune pagine del primo canto riprese dai manoscritti di padre Maurizio:

“Carlo Magno ossia La Chiesa liberata"

Canto Primo

A secondar l’estro mio scendi,
musa celeste e dell’eroe cristiano
le magnanime gesta a dire imprendi.
Domator di se stesso, e del pagano,
l’empio sconfisse, e ci liberò dall’onte
l’arca di Cristo con possente mano
l’Angelo dei delitti invan la fronte
estolle, e unisce i Re perversi in guerra
del Vatican contra il sacrato monte;
con l’armi franche Iddio purga la terra
dell’eterna città sotto le mura
accorre Carlo e l’empia lega atterra.
La fiaccola marzial qual mano impura
scuotere osò? Fu il Re Didier che prego
Spoleto ha sotto il vel di notte oscura.
Di Roma quivi alla conquista inteso
pria d’incontrarsi ancor nel suol latino
vuol che de’ greci sia il soccorso atteso.
di polve un nembo giù dall’Appennino
scorrendo ingombra il pian, s’apre, si stende,
ecco l’armato appar suol bizantino.
Longino è il duce, che coi greci scende;
longin perverso ingannator, che a un tratto
insidie a Roma e ai lombardi tende.
Da Sibari or viene e reca il patto
che il greco Imperator per suo consiglio
testè in favor del Re lombardo ha fatto. …

Padre Maurizio Archeologo: Nella terra di Vulci e dintorni

Per un migliore inquadramento storico ricordo che nel 1806 padre Maurizio conosce Luciano Bonaparte. Nello stesso anno il Papa Pio VII gli affida l’incarico di precettore dei figli di Luciano (diverranno una bella nidiata!), che si stabiliscono nella zona di Canino, territorio pontificio, eretto a Principato dal Papa stesso.
Leggiamo su un interessante articolo apparso su “Canino Info”: ”L’estensione del fondo di Canino era di circa 8.000 ettari e comprendeva anche il Palazzo Farnese, il Castello di Musignano ed il Castello della Badia nei pressi di Vulci. In tutto il feudo dimoravano circa 12.000 persone. La maremma laziale era disseminata da acquitrini e vi prosperava la Macchia mediterranea, con i pini marittimi, il ginepro, il mirto ed il rosmarino. L’entroterra collinoso era ricoperto di lecci e di sugheri e vi abbondava una ricca selvaggina composta da cinghiali, daini, caprioli ed anatre selvatiche…”
Al principio del 1828, quasi per caso, si scoprì una grotta sotterranea nel piano di Cavalupo poco distante dal monte Cuccumella ove si trovarono alcuni vasi etruschi.
Con il Principe Luciano, padre Maurizio condivise il gusto dell’archeologia. Nella vita ordinata, scandita dalla preghiera, e pur varia di padre Maurizio sembra scritta questa frase saggia: ”Io non ho il tempo per la fretta”.
Appassionato e costante, diede spazio alle ricerche archeologiche, ispirato da Vincenzo Campanari e colse gli interessanti risvolti collezionistici, lasciando alla Principessa Alexandrine de Bleschamp, moglie di Luciano, la parte economica.
Ad Alessandrina si deve il maggior successo degli scavi. Ella, dopo una prima esperienza di scavo affidata a persone, resesi poi inaffidabili, guidò ella stessa le prime fasi delle indagini archeologiche del territorio, dopo avere avuto dal Camerlengo di S.S. Leone XII l’autorizzazione a procedere. E sorvegliò gli scavi alla Doganella presso il Ponte della Badia.
Padre Maurizio non amava apparire: il saio velava e rivelava la sua poliedrica e insigne personalità. Padre Maurizio fu uomo di grande fede e di immensa praticità; può stare a lui l’aforisma. ”Tutto può cambiare in un batter d’occhio. Il Signore Dio non sbatte mai le ciglia”.
Alessandrina e Luciano erano una coppia perfettamente unita e in amabile sinergia operativa anche in questo campo e ad Alessandrina si attribuisce la prima campagna di scavo, alla quale seguirono numerosi cantieri nella tenuta della Badia.
Le attenzioni relazionali di Alessandrina furono seguite dal rigore scientifico di Luciano e di padre Maurizio e dalla pianificazione delle loro ricerche.
Come nota il Prof. Menghini nella sua traduzione in italiano del “Museum Etrusque”: a noi sembra che il principe Luciano abbia dato inizio all’etruscologia come scienza. Il Bonaparte pone ordine razionale a quello che trova e analizza tutto secondo i lumi della ragione, organizzando a Musignano un’esposizione, museo, laboratorio di restauro e catalogazione di reperti.
Tra le carte conservate in archivio abbiamo una “proposta di restauro” di un vaso etrusco di ottima e squisita forma ellenica, condotta al restauro con una ricetta di padre Maurizio: ”tre once di gomma lacca, e nove di spirito di 21 o 22 gradi per i colori giallo paonazzo e bianco, quattro once di gomma lacca e otto di spirito per il color nero”. Fosse sua la ricetta o ripresa da altro manuale il pezzo riacquistava, il suo smalto, il suo sole. Diceva Picasso: "Alcuni pittori partono dal sole e arrivano a dipingere una scomposta macchia gialla. Altri, pochi, partono da un’informe macchia gialla e arrivano a dipingere il sole". Molto pochi, aggiungo.
Nota con esattezza il prof. Stephan Steingraber, uno dei maggiori esperti di etruscologia: “il Principe, man mano che gli oggetti venivano estratti era solito valutarne lo stato, descriverli, catalogarli, se necessario restaurarli, inserirli in un contesto locale ben definito. È il primo tentativo di un’archeologia sistematica e scientifica, ormai separata dalla letteratura e dalle favole dei poeti, pur con le imperfezioni e i pregiudizi del tempo.
Padre Maurizio nel 1829 diventa socio corrispondente per l’Istituto di corrispondenza archeologica. Parecchi anni dopo, per i suoi meriti nel settore, il 14 gennaio 1846 viene nominato Socio onorario corrispondente della Pontificia Accademia Romana di Archeologia.
Il 27 giugno 1833 padre Maurizio elabora un documento interessante sulle sue conoscenze archeologiche. E’ una dissertazione sui reperti trovati dalla famiglia dei principi di Canino nella quale si legge che “Le società letterarie non solo d’Italia, ma d’oltre mari e d’oltre monti, si sono interessate a queste scoperte; l’importanza delle quali viene paragonata con quelle degli scavi di Pompei e di Ercolano.” La dissertazione sarà letta all’accademia degli Ardenti di Viterbo, da Don Girolamo Orlandi, curato dell’Ellera.
Il discorrere di padre Maurizio è semplice, leggermente retorico come si esige in dibattito pubblico, con richiami alla benevolenza degli uditori. Egli riconosce che agli archeologi del territorio di Canino sono mancate certamente una regia e una sovrintendenza governativa allo scavo che inquadrasse subito ogni reperto nel periodo storico.
Padre Maurizio ha una vasta cultura classica latina, ma soprattutto greca che gli consente una lettura filologica delle iscrizioni e di orientare la fattura e quindi l’epoca dei reperti.
Padre Maurizio difende la storicità di tutto lo scavo aperto dai Principi di Canino, anche se furono trovati simili a Tebe, a Corinto, a Atene o in altri paesi della Grecia propriamente detta. Tutti i reperti trovati nel sottosuolo vulsciano vivono di vita propria e non possono essere stati trasportati dalla Grecia dal Principe Luciano prima di iniziare i lavori! E’ di conforto intellettuale a padre Maurizio quanto scrive l’abate Luigi Lanzi insigne cultore delle lingue dei popoli che hanno abitato il Centro-Italia.
Nelle 42 tavole di iscrizioni, pubblicate nel primo volume del Museo Etrusco del Principe Luciano, i caratteri sono greci. Successivamente, padre Maurizio, adattando i testi del Lanzi, prosegue in un’analisi di vocali etrusche mancanti fino a giungere al verbo greco “poien” scritto sull’orlo di alcuni vasi “Fatto da…”.
E padre Maurizio sottolinea che, essendo i reperti trovati in un terreno che è patrimonio di San Pietro, dello Stato Pontificio, assumono un carattere nazionale.
C’è anche da dire, secondo il Lanzi, che entrarono nell’Italia Centrale vari colonizzatori greci, prima della guerra di Troia e dopo di essa.
Tra i primi ad entrare nella zona furono i Pelasgi, secondo Tucidide, e pare che parlassero un dialetto diverso dagli altri greci; verosimilmente fu un greco antico. Da Arcadia venne un gruppo di Elide; di Laconia secondo Plutarco e Servio; i Sabini dai quali si propagarono, i Piceni, i lucani, gli Osci, i Sanniti. Greca fu tenuta da alcuni scrittori la nazione umbra… Il Lazio e Roma stessa alle origini da Arcadi e da Pelasgi … or essendo l’Italia da ogni lato piena di greci, la lingua più usata in Italia si può affermare che sia stata la greca, conclude padre Maurizio.
Nella sua dissertazione archeologica padre Maurizio continua in un’avvincente analisi sulle parole; ad esempio sui nomi femminili egli nota che talora hanno la terminazione dorica in “a”, ora ionica in “e”; dialetti diversi di popoli che dominarono successivamente nel Peloponneso. C’è una somiglianza concreta ed evidente tra le iscrizioni amiclee e quelle del principe di Canino. Padre Maurizio esce, a sorpresa, con una sorprendente battuta di retorica ottocentesca: ”Io scommetto il più bel fiore del mio giardino contro una presa di tabacco, che nessuno di voi troverà fra le seicento lettere di queste iscrizioni Amiclee, non me ne troverà, dico, né per Apollo né per Bacco una sola, né neppure una sola, che non si trovi ripetuta più di una volta, tale e quale fra le iscrizioni del Principe di Canino”.
Nella sua Brescia lo scrittore Federico Odorici, nel compilare una Guida di Brescia rapporto alle arti ed ai monumenti antichi e moderni (1852), commenta positivamente la collaborazione e l’amicizia riservata al padre Maurizio dal Bonaparte che ne cita letteralmente il ricordato apprezzamento scritto nel 1829. La nota dell’Odorici è posta a commento di un vaso presente nel Museo della città ed ad esso donato da un non meglio precisato Paolo Tosi. Si tratta, in particolare, di un vaso attico scavato a Canino, nella località Cavalupo, proprio al tempo di Luciano Bonaparte e che lo stesso descrive al n. 710 del suo Catalogo, con la raffigurazione da un lato di Ercole che atterra il leone Nemeo, con l’assistenza di Minerva e, dall’altro lato, i Dioscuri in faccia a Tindaro e Leda. Come si vede, nella ricostruzione del patrimonio vulcente, anche questa piccola nota può tornare utile, anche se crediamo che non sia sconosciuta agli studiosi.
“Sala Massima — Lapidi
Nel mezzo del pavimento è un mosaico prezioso scoperto in Brescia nel 1820, e sovra un tronco di colonna, mirabile per la forma, per la conservazione, pei soggetti che rappresenta, è un vaso etrusco venuto dagli scavi di Cavalupo del principe di Canino. Da un lato i Dioscuri armati della doppia lancia, e di fronte Tindaro e Leda: dall'altro è un Ercole che, presente Minerva, atterra il leone Nemeo; fu dono munificentissimo del conte Paolo Tosi.
Si leggono a sinistra le epigrafi sacre; le storiche di fronte; stanno le onorarie a destra; rimpetto alle storiche le funerarie.
1. Antichità Etnische degli scavi del principe di Canino. (Viterbo, per Monarchi 1829, p. 46 D. 710), classificate dal principe coli' assistenza del suo collaboratore ed amico (sono parole di Luciano Bonaparte) P. Maurizio da Brescia.
2. Tutte le sacre e qualcuna delle storielle sono già illustrate dal cav. Labus nel dottissimo volume: Marmi Bresciani classificati ed illustrati, in corso di stampa. Museum Etrusque de Lucien Bonaparte prince de Canino fouilles 1828: pag. 46
Mi piace ricordare la frase di un critico d’arte, il Thomson, che diceva “Gli archeologi si accostino ai reperti d’arte come a corpi vivi con mani nobili e gentili”. Sono le mani del principe Luciano, della principessa Alessandrina e del loro grande amico fra Maurizio da Brescia.”
Anche l’archeologo Alessandro François, scopritore della notissima tomba a lui dedicata, nel Bollettino dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica del maggio 1849, nel raccontare la sua visita agli scavi vulcenti, non trascura di ricordare come in tale ispezione fosse accompagnato “dall’ottimo e chiarissimo mio amico Padre Maurizio da Brescia”.

Padre Maurizio Medico Omeopata

In calce alla prefazione del “Compendio della Medicina Curativa”, P. Maurizio annota “Ciò che scrissi a Canino l’anno 1825 lo confermo in S. Giuseppe di Brescia oggi 2 novembre 1852”. Nella quiete della campagna di Musignano ed in seno alla serenità che regnava nella casa di Luciano Bonaparte, il frate amico, confidente, precettore, negli anni immediatamente successivi alle vicende dell’era napoleonica e precedenti quelli appassionati delle ricerche archeologiche nella piana di Vulci, si stava occupando (tra l’altro) di medicina.
E’ sorprendente come Padre Maurizio abbia saputo farci stare tante cose e tanto diverse nel suo vivere. In lui c’è stata l’energia del desiderio che si è fatta domanda su cose di vita, sul bello e sul vero dell’essere.
Un cristallo toccato dalla luce esplode in colori nuovi, ricchissimi. Padre Maurizio, toccato dalla nostra conoscenza, sprigiona doti sempre nuove. Oggi vediamo in lui gli esiti di uno studio sul corpo umano. E’ interessante affermare subito che Padre Maurizio non procede per tentativi, ma procede con ricette precise, scientifiche, che stupirebbero anche la commissione di sanità dell’Inghilterra che equipara l’omeopatia alla stregoneria o la dice patrimonio dello sciamano della foresta.
E’appassionato alla natura e alle cose. Della sua attività fantastica per l’archeologia ne abbiamo parlato nel capitolo precedente.
Abbiamo potuto leggere preziosi documenti di archivio, scritti da Padre Maurizio, di propria mano. Una grafia ordinata, appoggiata sempre ad una riga appena accennata, con un pennino nerissimo, consente una lettura impegnata e chiara. La conoscenza dell’anatomia e della fisiologia del corpo umano è perfetta. E lo studio dell’enterologo conduce padre Maurizio a diagnosi perfette. Non c’è disagio in lui; ha chiara la definizione di scienza e fede, del rapporto tra i due grandi valori e cammina tranquillo secondo il detto biblico: ”Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40,31)
Ha un concetto di libertà nuova e interessante. Scrive un autore che “La libertà ha inizio dall’ironia”. Per padre Maurizio, la libertà va sempre “liberata” dal peso del corpo e dai capricci dell’anima. E si dedica a togliere i condizionamenti del corpo.
Nelle sue “dispense” e istruzioni per l’uso, per chi vuole seguire le sue attenzioni farmaceutiche, padre Maurizio dà all’inizio delle posologie precise; dà l’avvio ad un “bugiardino” sapiente e ben articolato; ad esempio per un regolatore intestinale di quarto grado, per un intestino pigrissimo, necessitano: scamonea d’Aleppo once 4, radice di turbitti once 2, gialoppa once 16. Il tutto in polvere. Prosegue da buon bresciano, “acquavite” (nobile termine per non dire la volgarissima grappa) gradi 22, libbre 16… ”Si fa la solita infusione, si passa poi ad aggiungervi il seguente sciroppo: avena once 16, acqua bollente (meno male!) da 4 a 8 once. Si infonde come sopra, si sprema e si aggiunga zucchero libbre due. Si faccia quindi lo sciroppo con la dovuta attenzione” conclude padre Maurizio I paragrafi successivi contengono considerazioni per la somministrazione e i suoi effetti.
Il primo grado del purgativo, essendo il più mite con once ridotte ed assente l’acquavite, è riservata ai bambini dagli anni uno ai sette. Si può indebolire il prodotto con l’infusione di avena e di cicoria. Va bene anche per le persone anziane “di sensibilità nervosa”, Il secondo grado comprende i fanciulli dai sette anni in poi e gli adulti che desiderano incominciare la cura. Il terzo grado si può prescrivere “per gli ammalati riconosciuti difficili ad evacuare, a quelli, ai quali l’azione del secondo grado più non produce abbastanza numerose evacuazioni, quantunque la dose sia stata portata al numero di quattro cucchiaiate...” E il saggio “bugiardino” prosegue verso il quarto grado, il più forte e decisivo. Si raccomanda di non aumentare le cucchiaiate (sempre e solo quattro) ma di regolare gli infusi. Se si vuole portare la posologia a cinque cucchiaiate si faccia attenzione che “ogni cucchiaiata corrisponde al peso di mezza oncia circa”.
Nel paragrafo 4 si indicano le ore opportune per assumere le dosi evacuanti. Fermo restando che è il mattino il momento più opportuno, ci si può regolare anche in base alla digestione personale; si può assumere “sei ore dopo il pasto sobrio e moderato” (niente abbuffate, quindi!). E padre Maurizio ci tiene a dire che il prodotto non è un purgante, ma un “purgativo”, un lenimento, un accompagnatore fibro-vegetale, solo ciò che la madre terra ci può dare. La terra è una mamma per tutti: “una mamma non si compra né si vende: è un dono” ci ricordano gli Indios Ayoreos.
Le dosi vengono trattate dal paragrafo 5. Si citano le “persone di passabile costituzione e senza vizio di struttura, con un cucchiaio: Per le deboli poi, delicate, dette nervose, per le mal conformate, e da lungo tempo inferme, non meno per quelle che sono riconosciute sensibili al vomito, o che lo paventano, basterà uno scarso cucchiaio…” Nei paragrafi successivi tratta della possibilità di diminuire l’azione del vomi-purgativo, aggiungendo alle pozioni un the caldo. E se per via orale crea qualche problema, la pozione sia presa per le “vie basse”. Può darsi dice il testo che alcune persone abbiano bisogno di reiterati interventi, si abbia attenzione a mantenere “sempre la distanza da una all’altra replica almeno di un’ora e mezza.”
Se l’effetto della porzione è esorbitante si ricorra “ad una o più tazze di brodo ben grasso, e con alcune cucchiaiate di “butiro” (burro) liquefatto, a brevi distanze le une alle altre.”
A completamento della ricetta, padre Maurizio indica con precisione che dopo le evacuazioni e non prima, “l’ammalato comincerà a bere del the o del brodo leggero, brodi di erbe, acqua panata (infusi), latte allungato con acqua, acqua vinata, il tutto tiepido e a piccole tazze fra un’evacuazione e l’altra”.

Un Quadro di Salute

E’ veramente un quadretto pregevole, un’analisi medica accurata, che denota un retroterra di osservazioni e il pensiero sistematico. La descrizione è molto articolata; colgo alcuni passaggi più eloquenti. “I caratteri della salute di un individuo – scrive padre Maurizio – si manifestano con la privazione di ogni dolore, o incomodità, e con il libero e regolare esercizio delle funzioni naturali tutte, nessuna eccettuata. Sono indici di salute un buon appetito nelle ore destinate al pasto, una facile digestione, evacuazioni libere, una volta almeno ogni ventiquattro ore, un sonno tranquillo senza agitazione ed esente da sogni penosi, la bocca non contaminata da cattivo gusto, né da agrezza, né da rinvio di stomaco, o rutti disgustosi, pulita la lingua, l’alito non puzzolente, non acrimonia, né prurito, né bolle, o macchie sulle pelle, non ardente calore in nessuna parte del corpo, non sete straordinaria senza una conosciuta causa di troppo moto, o di violento lavoro, senza parlare di tanti altri, dei quali ognuno può da se stesso giudicare.”
Anche in appendice alle dispense troviamo un capitoletto sul tema delle “Malattie esterne”. La prima geniale affermazione è la seguente: ”Molti ammalati sono persuasi, che la loro affezione, non abbia altra causa che l’azione esterna sofferta, come ad esempio una caduta che gli uni hanno fatto, un colpo che gli altri hanno ricevuto, una ferita riportata, o infine uno sforzo provato in una circostanza qualunque”. Le malattie, con referenza totale a stessi, sono le più difficili da gestire: tale malattia è venuta a complicare e aggraverà gli effetti e le lesioni della causa esterna.
Un vasto pubblico ha seguito padre Maurizio nella composizione e distribuzione dei suoi prodotti. Notabili e gente del popolo, ricchi e poveracci. In quel tempo di furori e di guerre per l’indipendenza, padre Maurizio si presenta come uomo di pace, della salute. C’è una bella lettera della nipote di Carlotta, Marietta Stefanoni, indirizzata a padre Maurizio; nella quale ella chiede i medicamenti per i suoi disturbi e poi termina raccomandandosi alle sue orazioni “e le bacio la mano e domandandogli la sua santa benedizione e con tutto il rispetto mi dico sua dev.ma serva Marietta Stefanoni Roma, 24 agosto 1858.”
Nulla più ci sorprende di padre Maurizio che a volte andava personalmente ad approvvigionarsi delle sue erbe medicamentose nei prati e nei boschi attorno al piccolo principato. Troviamo una sua segnalazione della presenza nel territorio di Canino di una particolare orchidea (Himantoglossum hircinum) prontamente registrata nella Flora Italiana, repertorio curato da Filippo Parlatore e edita a Firenze nel 1858.
Un’ulteriore citazione nella flora delle Marche: “Fra i passati raccoglitori di piante marchigiane che fornirono materiali di studio agli erbarii del Bertoloni e del Parlatore e che si vedranno ove occorra citati nel corso dell'opera, ricordo anzi tutti l'infaticabile Orsini di Ascoli che fu il più ardito e valente esploratore delle nostre montagne; quindi Lavinio Spada compagno di ricerche dell' Orsini, Narducci: illustrazione dell' Ateneo Maceratese, Fr. Maurizio da Brescia, Marzialetti, Utili,…”
E ancora, quando si trova in San Giuseppe compare sulla pubblicazione: "Flora del Tirolo meridionale; … delle Alpi Retiche sino ai confini del Lombardo-Veneto … a proposito della “Rumex Nivalis … È pianta comune nel Trentino: nasce in Valsugana, … e sulle alpi al limite inferiore delle nevi eterne, come riferisce il eh. Cav. Bertoloni (Fior. Hai. IV. pagina 253) dietro esemplari ottenuti dal Reverendissimo Padre Maurizio da Brescia …”.
Padre Maurizio medico omeopata ma anche e soprattutto medico dell’anima perché amico di Dio.

Padre Maurizio e la musica

La musica ha accompagnato padre Maurizio per tutta la vita, sin dalla prima infanzia, cercava di ottenere melodie da tutto ciò che lo circondava, dalle stoviglie della cucina di casa, agli attrezzi dell’umile bottega del papà sarto, a tutto ciò che la natura gli metteva a disposizione. Ascoltava le melodie del canto degli uccelli nel sottobosco in prossimità del fiume Oglio che scorre nei pressi di Quinzano, dove sorgeva l’antico convento dei francescani. Il gorgoglio dello scorrere quieto delle acque del fiume gli donavano quella pace, quella serenità in fondo all’animo, capace di far diventare la sua mente una delle più preparate del suo tempo.
Proprio come maestro di musica, insegnante di piano e di altri strumenti musicali, padre Maurizio iniziò la sua attività presso la casa di Luciano Bonaparte, impartendo ai figli del principe le sue prime lezioni di musica.
Si dilettava di musica sia sacra che profana, definita quest’ultima “Cimarosesque”, in una lettera scritta da Malta nel 1810, da Alessandrina che riporta divertenti dettagli su un’opera composta dal francescano che svolgeva “la quadruple fonction de Poëte, de Musicien, de prêtre et de médecin” … egli ha quasi ultimato la musica e le parole di una piccola opera intitolata: “la prima donna e l’impresario.”... nella lettera, lungo diario epistolare di circa 70 pagine (settembre novembre 1810, durante la prigionia), sono descritte alcune arie e i dettagli dell’intrigo.
Durante la prigionia in Inghilterra, scrive la duchessa Laure d’Abrantes in una sua opera, “la vita di Thorngrave era molto animata, ciascuno vi partecipava. Tutte le domeniche si svolgeva una sorta di esame. Si portava tutto ciò che era stato fatto durante la settimana e c’era un concorso, poi un concerto. Le giovanette cantavano. Charles de Chatillon suonava il violino e padre Maurizio il piano …”
E ancora, un divertente ritratto del frate “Padre Maurizio è un uomo di grande spiritualità e con una mente aperta che si appassiona di ogni cosa. È un buon musicista, possiede vaste conoscenze e può degnamente svolgere le funzioni di precettore dei figli del principe di Canino. Ma c’è un positivo inconveniente che lo disturba qualsiasi cosa intraprenda: il suo naso. Non si è mai visto un naso così lungo in questo mondo, luogo in cui si vedono lunghi nasi, dato che nell’altro ognuno è camuso. Ebbene, perfino padre Maurizio non lo sarebbe. Vi assicuro che non è un uomo con un naso, è un naso con un uomo. Resta il fatto che il naso è un bravo musicista, un esperto competente e un ottimo conversatore.”
Dopo aver incontrato il fratello che lo ha visitato a Canino, nel 1825, padre Maurizio scrive ad un nipote: “… Cornelio che viene a Brescia vi porta una sonata per organo, che ho composta a bella posta per voi. Spero che la gradirete e che vi farete onore, non essendo né troppo facile né difficile ma come immagino adattata per fare un buon effetto …”
In una lettera Carlotta, ormai sposatasi e che aveva ricevuto alcuni pezzi di musica sacra, scrive a padre Maurizio: “… mi diceva la mia buona madre del sacro cuore, sappia sempre che la sua messa è cantata e ammirata in modo tale che le altre tre o quattro che hanno gli sembrano da non potersi più sentire …”
In un’altra lettera del 1851 dove descrive le peripezie di un viaggio che lo portano al convento veneziano della Vigna: “… passeggiando fino a Rezzato, ci siamo arrampicati su!, su!, su! fino al Ronco dei padri riformati, … rifocillati per bene, abbiamo avuto il coraggio di rotolarci giù dal Ronco e non so come ci siamo ritrovati a Rivoltella dove alle sei pomeridiane celebro l’offizio … alle cinque del mattino avevo già detto la Messa, fatta colazione ed ero già in volta per la stazione. Tin-tin, tin-tin, tin-tin … eccomi seduto in un bel vagone … L’elefante fischia fjijiji!!! Si parte si vola… saluto la bella Vicenza, la dotta Padova … ed eccomi alla porta della Vigna … un gruppo di religiosi mi circonda … ben vento … ben trovati … e dove vanno lor signori con quelle carte sotto il braccio? Andiamo a San Lorenzo … a cantar la messa per San Domenico, ma ci manca l’organista … Eccomi pronto! … ma sarà stanco! Niente, niente. La gondola ci raccoglie … si canta, si suona, si festeggia … Messa … pranzo … Vespri … Panegirico … Benedizione, ecc. tutta la giornata coi padri domenicani …”
Nel 1845 presentava all’Accademia Arcadica di Roma, una memoria sulla melometria dei canti biblici, cui aggiunse, pubblicandolo sul “Giornale di Roma” del 20 giugno dello stesso anno, un saggio dei primi versetti del “Cantemus Domino”, poi ripresentato assieme all’Ateneo di Brescia il 17 gennaio 1847, entrando, tra l’altro, in polemica con il conte Luigi Lechi. In questi lavori si sforzò di dimostrare che il metro e il ritmo della poesia ebraica non furono che un accordo di note musicali rispondenti alle lettere iniziali d’ogni sillaba di tutte le parole in ciascun verso.
Abbiamo ritrovato lo scritto originale “Melometria dei cantici della sacra scrittura e particolarmente del mosaico” presentata all’Accademia Araldica di Roma”:
“Che i cantici della sacra scrittura siano stati originariamente scritti con certe regole determinate, che li distinguessero materialmente dalla prosa, è opinione riscontrata fra i dotti.
Il sapere poi quali fossero precisamente queste regole, si riguarda come un problema insolubile ... Non mancarono gli scrittori, che, con molta erudizione intrapresero ad illustrare un così interessante argomento; ...
… Fra questi, chi nei sacri carmi cercò i metri greci e latini (Franciscus Gomarus, non mancò di ravvisarvi il ritmo, Biagio Garofalo anche la rima delle lingue moderne). …
… Ora rispettando sinceramente l’opinione di ciascuno … abbiamo immaginato di cercarlo col soccorso della scienza ed arte musicale, nella quale ci siamo esercitati fin dall’infanzia.
Supponiamo che questo artificio possa consistere primieramente in melodie espresse nel sacro testo dalle lettere prime di ogni sillaba; secondariamente in metri regolari, non precisamente tali, quali vengono insegnati dai greci e dai latini grammatici, ma tali quali vengono praticati dai musici e possono convenire ai punti, ed agli accenti masoretici.
Nella ricerca, scarsi come siamo di tradizioni, non avendo altro appoggio, che quello che ci possono somministrare le nostre ipotesi, le nostre congetture e i nostri esperimenti, esporremo il nostro parere senza pretesa alcuna, disposti ugualmente a proseguire i nostri studi …
Primariamente per ciò che riguarda la melodia, noi la cerchiamo con una specie di regola e ragioniamo così: data una scala di suoni corrispondenti a ciascuna lettera dell’alfabeto ebraico ed applicando questa scala alle lettere prime di ogni sillaba nel sacro testo, ne deve risultare una cantilena qualunque; ma questa cantilena o sarà razionale e coerente alle regole della musica, o irrazionale e incoerente. In questo secondo caso converrebbe cambiare l’ordine della scala, il che si può fare in molte maniere, che non vogliamo per ora esaminare. Diremo solo che se in nessuna maniera ci vien fatto di trovare nel sacro testo una melodia cantabile e razionale, sarà chiaro che la nostra ipotesi è affatto inutile allo scopo che avevamo proposto. Ma se siamo abbastanza fortunati per trovare una scala, una chiave, la quale applicata al sacro testo produca una melodia razionale, cantabile, ed espressiva, avremo una forte presunzione in nostro favore per sospettare, almeno, che questo succeda per esserci incontrati precisamente coll’intenzione dello scrittore; principalmente se la stessa scala possa servire a cavare una melodia, non da un solo versetto, ma da un intero cantico.
Or dunque lasciando da parte tutte le altre scale, che non fanno al nostro proposito, prendiamo quella, nella quale “Aleph” corrisponde a “LA” dei moderni; “Beth” sarà uguale a “SI”; “Ghimel sarà uguale a “DO”; così via di seguito sino all’ultima lettera “Thau” ed avremo le seguenti equazioni:
Alef        = LA   Bet   = SI    Ghimel = DO    Dalet   = RE    Hej       = MI    Wav   = FA    Zajin = SOL
Kheth     = LA   Tet   = SI    Jod       = DO    Kaf      = RE    Lamed = MI    Mem   = FA    Num = SOL
Samech = LA    Ajin = SI    Pe        = DO    Tzadi   = RE    Kof       = MI    Res    = FA    Sin    = SOL
Tav         = LA
Le lettere in questa nostra ipotesi non sempre hanno un tal valore musicale, ma, come abbiamo già accennato, solamente quando stanno alla testa di una sillaba; d’onde viene che in ogni parola vi saranno tanti suoni, quante vi sono sillabe, né più né meno.
Prendiamo per esempio il primo versetto del cantico di Mosè come nel testo ebraico al capitolo quindicesimo dell’esodo. Scriviamo le sacre parole senza punti vocali e senza accenti in carta da musica, in maniera che vi si possano comodamente segnare le note corrispondenti a ciascuna sillaba.
Mettiamo delle note informi senza valore determinato in quanto alla durata dei suoni, perché le lettere prime di sillaba devono dare la melodia senza determinare precisamente la durata dei suoni, sullo stile del canto gregoriano.
Abbiamo segnate andando da destra a sinistra, come conviene al testo ebraico, le note musicali La, Sol, Fa; perché le lettere prime di queste tre sillabe sono Aleph, Scin, Resc; alle quali nella nostra ipotesi corrispondono le suddette note.
Secondo la stessa ipotesi abbiamo segnato le altre note esattamente corrispondenti alle lettere prime di ogni sillaba, come ognuno può verificare da se stesso…
… Non possiamo quindi fare a meno di accennare così di volo ciò che ne verrebbe, se si verificasse una volta la nostra ipotesi, cioè, che i sacri cantici degli ebrei sarebbero tanti pezzi di musica …
… Poiché tale sarebbe la forza e la natura di questa melodia, che anche senza il soccorso della voce, col solo risuonar degli strumenti musicali potrebbero ripetersi i sacri carmi e gustarsi l’artificio da chi ne conoscesse la lingua, non altrimenti che egli ne udisse le parole.” …
La musica fu per padre Maurizio “l’arte” che lo seguì anche negli anni della sua vecchiaia, tra le sue carte, non pochi gli spartiti scritti dal frate ormai ultra ottantenne.

Vita di Luciano

Sappiamo quanto sia stata avventurosa e piena di successi la vita di Luciano Bonaparte anche se alcune tragedie hanno afflitto la sua casa.
Ecco quanto riportato da Jung nei “Memoires” di Luciano Bonaparte: “… Ma tutto questo faceva ormai parte del passato. Ciò che contava era la mia vita attuale, che venne funestata, qualche anno dopo, nel 1827, da un crudele dispiacere, che si abbatté sulla nostra vita tranquilla di Canino. Appresi dai giornali inglesi la morte di mio figlio Paolo, avvenuta in Grecia, nella guerra di liberazione dalla Turchia, durante la quale Paolo, per suo ardimento, ottenne dai Greci il grado di Luogotenente-Colonnello. Il suo cadavere venne trasferito dai compagni d'arme a Navarino, dove venne onorevolmente sepolto.
Dopo questo duro colpo, tornai melanconicamente ai miei lavori, alle mie difficoltà economiche; ma la Seconda Rivoluzione Francese del luglio 1830 risvegliò in me i ricordi e le speranze, traendomi fuori dallo sconforto in cui ero lentamente scivolato. La nuova ventata liberal repubblicana mi offrì altre ragioni di indugio. Seguii con interesse l'avventura italiana dei due figli di mio fratello Luigi, ex Re d'Olanda, Luigi Napoleone e Carlo Luigi Napoleone (Napoleone III n.d.r.), che trascorsero la giovinezza a Roma e divennero membri della carboneria. Dopo l’espulsione di entrambi da Roma, nel 1830, parteciparono ai moti del 1831, dove il primo perse la vita durante gli scontri di marzo. Inoltre, mi inquietai moltissimo venendo a sapere che mio fratello Luigi inviò al papa Gregorio XVI una lettera, dove emergevano bigotte espressioni di indignata rozzezza per quel gesto sconsiderato dei due suoi rampolli: "Il mio primo figlio è morto, - scrisse Luigi al Papa - che Dio gli faccia misericordia! Quanto all'altro, quello lì, grazie a Dio, non mi è niente e usurpa il mio nome. Ho la disgrazia d'aver preso per moglie una Messalina che partorisce!”.
A mia insaputa, anche mio figlio Pietro si era aggregato ai due cugini. Pietro era ancora un adolescente, ma si sentiva esaltato dalla morte del fratello Paolo ed il suo sguardo torbido lasciava presagire una vita di avventure e di violenza. Non solo, ma a sua volta, Pietro coinvolse nei suoi ideali anche il figlio maggiore di Girolamo, il giovane Conte di Montfort, appena sedicenne. Questa cospirazione di scolaretti scriteriati, subito sventata, progettava di occupare nientemeno che lo Stato Pontificio! Mentre Carlo Giuseppe Napoleone, figlio di Girolamo e apparentato con lo Zar, fu minacciato di espulsione, l’ambasciatore di Russia riuscì ad intercedere per lui. Quanto al mio Pietro, venne imprigionato a Livorno, dove rimase per sei mesi prima di riacquistare la libertà.
Uscito di là, poi, la gendarmeria pontificia lo riaccompagnò a Canino, dove io lo redarguii, ma, confesso, non senza una punta di segreto orgoglio. Pietro, però, fu costretto a lasciare l’Italia e venne mandato negli Stati Uniti, presso mio fratello Giuseppe, dal quale si allontanò nel 1833, per arruolarsi volontario in Colombia, lanciandosi nella mischia delle guerre sudamericane. In questi frangenti, io non abbandonai del tutto la speranza di giocare ancora un mio ruolo politico. Evidentemente le mie ansietà erano destinate a non aver termine, perché due nuovi episodi giunsero a portarmi ancora amarezza. Mi trovavo a Londra, quando ricevetti inaspettata la notizia della fuga di mia figlia Maria con Vincenzo Valentini, e ne sono ancora assai addolorato.
Il secondo dispiacere me lo ha inflitto il mio Pietro, quando tornò improvvisamente dal Sud America e lo ospitai a Canino insieme all'altro mio figlio Antonio. Pietro ebbe la malaugurata sorte di affrontare i gendarmi pontifici in Piazza del Mercato e, nella rissa che seguì, pugnalò a morte un ufficiale. Immediatamente arrestati, i miei figli vennero tradotti a Roma e chiusi in Castel Sant'angelo, al processo, il mio povero Pietro venne condannato a morte; la pena, però, gli viene commutata nell'ergastolo, grazie alle mie conoscenze e alle mie insistenze riuscii a liberarlo dalla prigione. Ma Pietro non cambiò. Si lanciò di avventura in avventura, in Belgio, in Russia, in Egitto, in Grecia, tenendo costantemente in ansia me e la mia adorata Alexandrine. …”
In una lettera affidata a Pietro, perché la consegnasse a padre Maurizio, Luciano conclude con questa singolare frase: “… Spero che Don Pietro si condurrà bene, in ogni caso penserò a ciò che devo fare, ma confido nel suo compiacimento: ha un buon cuore e la sua testa, calmandosi un poco, diverrà testa d’uomo…”
“ … Dopo questi duri colpi il mio ritiro è divenuto definitivo: la mia età avanzata, la sofferenza e i dissesti finanziari, che di recente si sono fatti ancora più vivi, mi affliggono giorno dopo giorno: ora, non esco quasi mai di casa se non in compagnia del fedele compagno Pietro Miccinelli o di padre Maurizio, mio intimo confidente, con il quale trascorro una parte delle notti a redigere febbrilmente le mie memorie, delle quali ho pubblicato con qualche difficoltà, solo il primo volume...”.
“… Sono ormai più di due anni che, afflitto dal mio male, percorro l'Italia da un luogo all'altro senza trovare una soluzione. …”

La Morte dell’Amico

Verso la metà di giugno 1840, accompagnato dalla moglie, dalla figlia Costanza in procinto di prendere i voti e da padre Maurizio, Luciano decise di trasferirsi a Siena per sfuggire all’afosa calura di Canino; ma non riuscì a sopportare i disagi del viaggio e fu costretto a fermarsi, febbricitante e sfinito, presso la sua abitazione di Viterbo.
Alcuni giorni dopo, il 26 giugno, padre Maurizio scrive a Pietro Bonaparte per informarlo dell’aggravarsi della malattia: “Stimatissimo sig. Don Pietro, la malattia del sig. principe che pareva di poca importanza ha preso da pochi giorni in qui un carattere assai allarmante. La signora principessa nell’afflizione del suo cuore, non ha voluto lasciar lei nell’ignoranza di quanto succede, e mi ha imposto di avvisarla facendole parte dei nostri timori. I medici appena ci lasciano travedere qualche speranza. Noi tutti porgiamo caldi voti al cielo per la conservazione di una per noi così cara vita. E son ben persuaso che anch’ella vorrà unire i suoi voti ai nostri, partecipando equamente ai nostri timori, ed alle nostre speranze”.
Come emerge dal Diario clinico redatto dal suo medico curante, il Dott. Giovanni Selli di Viterbo, la notte tra il 29 e il 30 giugno 1840, per l’aggravarsi della malattia Luciano si spense, circondato dall’affetto di alcuni figli, tra le braccia della sua Alexandrine, il cui amore lo aveva confortato sempre nell’affrontare ogni tipo di avversità nel percorso della sua esistenza umana. Aveva 65 anni e 30 giorni.
La morte di Luciano fu un immenso dolore anche per padre Maurizio, che scrive subito una lettera alla sorella Filomena dove dice: “Piangete meco, sorella cara. Il principe Luciano Bonaparte, quegli che me chiamava suo amico e collaboratore non è più fra di noi. Fra i conforti di quella santa Religione che egli predicava dalla tribuna e cantava nei suoi versi, benedicendo i suoi figli presenti ed assenti, Luciano Bonaparte, Principe di Canino spirava in Viterbo alle sei del mattino del 29 giugno 1840”.
Scrive nuovamente a Pietro Bonaparte per informarlo della morte del padre: “Carissimo sig. Don Pietro, quando le scrissi giorni sono che la vita del sig. principe era in pericolo per la fiera malattia che lo crucciava, ero ben lungi dal credere che sarei stato così presto obbligato a darle l’ultima ferale notizia. Pure tant’è. La morte ha rapito a me l’ottimo padrone, a lei l’amoroso padre. La principessa desolata appena spirato il principe è partita per Roma col principe di Musignano (Carlo Bonaparte n.d.r.) che si è trovato presente all’agonia del padre. Ma preziosa al cospetto di Dio è la morte del Giusto munito di tutti i conforti della religione. Spirò il principe dopo aver data la sua benedizione a tutti i figli presenti ed assenti fra le nostre braccia la mattina del 29 giugno milleottocentoquaranta alle ore sei”
Nei lunghi anni che padre Maurizio trascorse insieme alla famiglia di Luciano, probabilmente soggiornò, sia pur per breve tempo, in ognuna delle ville che essi possedevano, dalla Rufinella, la villa di Roma, a Musignano, a Senigallia ed in particolare a Canino il cui ricordo tornerà spesso nei suoi scritti. Infatti, dopo la morte del Principe, il francescano diventò praticamente l’archivio storico, a cui tutti i componenti della famiglia si rivolgevano per conoscere o approfondire fatti che non conoscevano.

Il monumento funebre

Dopo la morte del principe Luciano, ottenuto il permesso dallo stato pontificio, la moglie Alessandrina, commissionò allo scultore Pampaloni di Firenze un monumento marmoreo che venne posto nella cappella funeraria della collegiata di Canino. Alla base del monumento venne collocato l’epitaffio:
“H.S.E. LUCIANUS KAROLI EX LAETITIA RAMOLINIA F. BONAPARTE / DOMO AIACIO PRINCEPS CANINEN / QUI MAGNAS FORTUNAE VICES MAGNO ANIMO EMENSUS / REGIAE DIGNITATIS ABSTINENS DOCTUS PIUS UTILIS MULTIS / VIXIT ANN. LXV DECESS VITERBI III K / QUINT. A. MDCCCXXXX ALEXANDRA DE BLESCHAMP VIRO DULCISSIMO ET SIBI P.C.”.
Inizialmente, dell’iscrizione per l’epitaffio si era occupato il conte Amici di Senigallia, buon latinista e ottimo conoscente della famiglia di Luciano Bonaparte. Abbiamo ritrovato nei nostri archivi alcune corrispondenze, a partire dall’inizio del 1844, tra lo stesso conte e padre Maurizio, con diverse versioni dell’iscrizione. Alla fine, il conte Amici, ha semplicemente dettato le specifiche relative alla nuova regolamentazione monumentale emessa dallo stato Pontificio.
La composizione dell’iscrizione è da attribuirsi al famoso latinista Michele Ferrucci, come possiamo rilevare da una curiosa lettera di Luigi Bonaparte, che pubblichiamo per intero, che egli scrive da Firenze alla madre il 4 aprile 1844.
In questa lettera apprendiamo di un contrasto con lo scultore Pampaloni, giudicato, dallo stesso Bonaparte, arrogante e testardo; vi è inoltre un pungente post scriptum nel quale reputa l’iscrizione formulata dal conte Amici inadeguata e ne propone una “migliore”, per l’appunto quella del più noto Michele Ferrucci, che allega alla lettera stessa.
“Firenze, 4 aprile 1844
Mia cara Mamma,
ho ricevuto la brochure in risposta a M. Buchon, che ho letto con molto interesse. Ciò che di buono viene detto di mio Padre non può che farmi il più gran piacere da qualsiasi parte esso venga, sono tuttavia incline a credere che l’autore di questa brochure metta in rilievo i tratti eroici della vita di mio Padre unicamente per i suoi interessi particolari. I suoi modi insolenti verso di voi lo caratterizzano come un volgare ronzino di calesse. Mio zio Joseph è stato assai malato i giorni scorsi, adesso sta meglio. Credo che nessuno dei miei zii conosca questa brochure. Joseph in particolare non vi è lusingato. Il C.te di S. mi chiede sempre notizie di Marie; vuole soprattutto sapere se avete scritto nuove poesie, al che ho creduto di dover rispondere di sì.
Sono molto spiacente, mia cara Mamma, di dirvi che M. Pampaloni, dopo avermi promesso positivamente di lavorare con alacrità alla nuova immagine e perfino dopo aver iniziato il modello in gesso del viso, d’un tratto m’ha detto chiaro e tondo che non vuole compromettere la sua reputazione di artista inserendo nel monumento un viso che secondo il parere, a quanto dice di persone intelligenti, non potrebbe che guastare il monumento. Mi ha detto di avervi scritto di questo progetto, non entrerò nella questione di sapere se ha ragione oppure no nel dire che questa nuova figura guasterebbe il monumento dato che non sono un artista, dico solo che una persona onesta mantiene la sua parola. Voi comprendete bene, mia cara Mamma, che non ho potuto impedirmi di trattarlo come meritava, tuttavia non sono giunto nei suoi confronti ad alcuna via di fatto. Vi avviso di questo nel caso egli si lamentasse di me con voi. Quest’uomo è molto testardo e non si ragiona volentieri con lui. Sono molto contento di sapere che Antoine ha fatto un buon affare. Vi prego di abbracciarlo da parte mia come pure Caroline, Marie e Cencio. Marienne sta bene, ma un dente la fa molto soffrire, uno di questi giorni se lo farà togliere. Aspettiamo con gioia di rivedervi presto a Firenze.
Nell’attesa, vi abbraccio e sono
Vostro figlio Louis
P.S. Andrò un’altra volta da M. Pampaloni per dargli l’iscrizione che mi avete inviato. Il Cavalier. Ferrucci, serio studioso e soprattutto grande latinista, e molto dotato nello stile lapidario, non trova affatto buona l’iscrizione di C. Amici. Sostiene che è a stento latina. Ne sono ancora più contrariato in quanto tutti dicono che M. Ferrucci è uno dei più competenti in questa materia. Vi invio quella a suo parere migliore.”
Comunque, come sappiamo, le cose, poi si sono appianate e il Pampaloni ha potuto concludere la propria opera con la soddisfazione di tutti i familiari e oggi ritenuta dai critici d’arte tra le sue sculture più importanti.

Padre Maurizio e il Risorgimento

“in questa casa il 17 febbraio 1778 nacque il dotto padre Maurizio Malvestiti che forte di cristiano patriottico zelo nelle gloriose dieci giornate sfidando la morte salva la nostra Brescia da un completo sterminio (per deliberazione aprile 1899)”.
Così recita la lapide applicata alla casa natale di Verolanuova, grossa borgata della provincia bresciana, dove padre Maurizio, viene ricordato per le sue gesta.

Il ritorno a Brescia

Dopo le varie vicende che lo hanno visto protagonista del nostro racconto, verso la fine del 1846 Padre Maurizio rientra a Brescia nel convento di San Giuseppe. Egli vi torna con gioia a ritrovare i ricordi dell’adolescenza mai sopiti nel cuore. Ai suoi occhi tutto riappare nella veste di un tempo arrivando a scordare le lotte e le ansie vissute in quegli anni di lontananza. Torna alla città tanto amata circondato da una fama di profondo sapere e di grande bontà. Tutti parlano della sua lunga amicizia con Luciano e la sua famiglia. È una figura nota non solo ai frati ma anche ai cittadini che lo accolgono con piacere e grande stima.
Nel settembre del 1847 viene nominato Provinciale della provincia veneta di Sant’Antonio con la responsabilità dei conventi francescani di Milano, Venezia, Verona, Feltre, La Motta (Schio), Gemona e Barbarano sul Garda.
Ben presto anche nella sua cara Brescia acquisì grande popolarità, meritandosi la riconoscenza del Governo Provvisorio, della Commissione Prigionieri e delle autorità sanitarie della città per aver ospitato nel convento, in più riprese, i volontari svizzeri, le truppe del gen. Anfossi, i volontari garibaldini, il battaglione studenti reduce dalla battaglia di Curtatone e Montanara e, amorevolmente assistito e curato i feriti. Padre Maurizio, come già visto, è stato un precursore della medicina omeopatica.

Le dieci giornate

“Carissima sig.ra Principessa (Carlotta Bonaparte n.d.r.)
Se sono vivo io lo riconosco in gran parte almeno dalle preghiere, che sono certo ella avrà fatto per me in questi giorni di pericolo.
Non posso dirle altro se non che la nostra bella città si è attirata la collera di Dio, che ha voluto affliggerla col bombardamento.
Il municipio ridotto ieri agli estremi, né trovando più persona che volesse incaricarsi di andar parlamentario in Castello, ha scelto la mia persona, ed io sono andato e tornato per ben due volte con uno straccio di bandiera bianca a parlare col Tenente Maresciallo Barone Haynau, ed al mio ritorno la seconda volta è cessato il fuoco, l’incendio, e la strage alle 6 pomeridiane Incirca. Nel mio pericoloso tragitto, specialmente nel passar la linea dei due fuochi, fra le palle che mi fischiavano attorno alle orecchie, pensavo alle orazioni di Lei, e dei miei Religiosi, che prostrati avanti all’altare implorano la Divina assistenza. Dia le mie notizie alla sig.ra Principessa di Lei Madre sono il suo Padre Maurizio m.o.
Brescia S. Giuseppe 2 aprile 1849”.
La lettera, un unico foglio con calligrafia decisa, scritta il giorno successivo la missione, è un documento appartenente alla storia del nostro Risorgimento. Si tratta dell’epilogo delle dieci giornate di Brescia, iniziate il 23 marzo 1849, quando la pretesa del pagamento di una multa che venne imposta dal maresciallo Haynau per via del comportamento poco collaborativo dei bresciani, fece scattare nel popolo la scintilla della rivolta. Venne eletto un comitato con a capo Luigi Contratti e Carlo Cassola, due nomi che riassumono un immenso disastro, poiché furono proprio loro a indurre definitivamente Brescia alla ribellione, lo stesso giorno in cui l’esercito piemontese veniva sconfitto a Novara. Ci si potrebbe chiedere per quale ragione, la rivolta scoppiò proprio quel giorno e da quali fonti fossero giunte le notizie, risultate in seguito false.
Il 31 marzo, al termine delle dieci giornate, fatte di aspri combattimenti, tra notizie fittizie, che davano l’esercito austriaco in fuga nell’intera Lombardia e l’esercito piemontese che, eludendo gli austriaci, era passato oltre le loro linee avanzando per l’intera Lombardia: Rinforzi che erano a poche ore dalla città, carichi di armi in arrivo destinate ai ribelli. Haynau arriva a Brescia da Padova e, grazie ad una fitta nebbia, riesce a penetrare nel castello con un battaglione. Assunto il comando, Haynau intima la resa incondizionata alla città. I Bresciani per tutta risposta lo sfidano al grido di: "guerra ad oltranza". Ripresero ancora una volta i bombardamenti e gli attacchi alle porte della città.
Intanto, quella stessa notte, i membri del Consiglio Comunale erano oppressi da un terribile dubbio: si trattava di decidere se attendere i rinforzi da Bergamo o arrendersi. La città era devastata dagli incendi, 47 consiglieri su 50 votarono la resa immediata. Purtroppo si ripeté la divulgazione di una falsa notizia e cioè che il Broletto (palazzo del Governo) era occupato e si tornò a combattere.
“Sorgeva l’alba del primo aprile, un bombardar tremendo cominciava dal castello, al quale un martellar universale di campane, più forte ancora che nei giorni precedenti faceva risposta” Così scriveva l’Albasini nel 1899 nel libro dedicato a padre Maurizio. Ultimo giorno del disastro, la città era ormai stremata, con le truppe dei generali austriaci alle porte. Cassola e Contratti rimisero il mandato e sparirono dalla città. Sopraggiungevano intanto rinforzi austriaci che riuscirono a soffocare la rivolta combattendo casa per casa. Nella città si alternavano bandiere bianche di resa a quelle rosse di guerra ad oltranza.
Per intercedere nei confronti di Haynau, invocandogli pietà per la città ribelle, i superstiti del Consiglio Comunale mandarono a chiamare Padre Maurizio che ebbe un ruolo determinante nelle trattative a favore della città.
Accompagnato da padre Ilario da Milano, assieme al cappellaio Pietro Marchesini, che reggeva una grande bandiera bianca, padre Maurizio riuscì a raggiungere il castello, placare il maresciallo Haynau ed evitare ulteriori distruzioni per la città e per il popolo.
Lo stesso Haynau gli fece notare quante sofferenze si sarebbero risparmiate a tutti se la città si fosse arresa soltanto un giorno prima.
Troviamo la cronaca della sua missione, raccontata come al solito con garbo e arguzia, nella lettera che scrisse oltre un anno dopo alla principessa Alessandrina Bonaparte. La lettera proviene da un archivio privato.
“Alla Signora Principessa di Canino, vedova Luciano Bonaparte
Lei mi ha chiesto, Signora, qualche dettaglio sui pericoli ai quali è stata esposta l’anno passato la mia cara patria, “la mia buona città di Brescia” (come la chiamava un alto personaggio ben conosciuto nel 1815). Glieli ho promessi da un anno, me ne ricordo, e mi vergogno molto di aver tardato così a lungo nel mantenere la mia parola. Tuttavia, devo confessare che diverse volte mi sono accinto all’opera, e che mi ha scoraggiato la difficoltà di evitare gli scogli delle opinioni calde, addirittura ardenti, che mi hanno avvolto e quasi stordito. E poi come parlarvi delle sventure di Brescia in presenza di quelle di Bologna, di Ancona, di Roma e di Venezia, che si sono succedute una dopo l’altra in così poco tempo? E poiché lei ha la bontà di interessarsi a me, lascerò da parte i nove giorni di bombardamento ininterrotto, e ripreso diverse volte verso la fine di marzo del 1849, di cui le ho già riferito un’altra volta; per non parlarle che del decimo e ultimo giorno, che fu il primo di aprile dello stesso anno, quando dalla platea fui portato io stesso come attore sulla scena del nostro piccolo ma sanguinoso teatro.
Avevo appena terminato (sotto il rombo del cannone) la lunga Messa delle Palme, quando il grido della patria in pericolo penetrò fino al fondo del mio asilo consacrato… È un signore, che non conoscevo, mandato dal Municipio a invocare la mia debolezza per cercare di salvare la città che stava per essere presa d’assalto e consegnata al saccheggio. Volgo lo sguardo sulla ventina di religiosi che mi circondano; tra loro faccio segno di seguirmi al pallido monaco (padre Ilario da Milano); e andiamo. La nostra guida ci precede, e ci indica con la voce, con il gesto, e con ancor maggiore efficacia con l’esempio, i luoghi in cui bisogna correre, o piuttosto scivolare attraversando la via degli orefici per evitare la portata di certe finestre dalle quali partivano colpi di fucile sui passanti (erano le finestre della Porta bruciata). In effetti, abbiamo sentito le detonazioni senza essere colpiti.
Entriamo nel Palazzo della Loggia, il Dirigente (sig. Sangervasio) facente funzioni di Podestà ci fa sedere accanto a lui, ed eccoci circondati da gente armata (gli eroi della giornata); c’erano anche alcuni consiglieri o assessori senza armi. Non ne conoscevo alcuno; per me era tutta gente nuova. Il Dirigente mi espone lo scopo per il quale mi aveva mandato a chiamare. Accetto di buon cuore la commissione di andare a parlamentare con il Generale Haynau, purché mi scriva ciò che devo chiedere.
Mentre ci si consultava per scrivere il dispaccio … c’era un continuo movimento di gente armata che andata e veniva … che sussurrava … che minacciava … sia di uccidere i prigionieri … sia di sgozzare le spie … e il Dirigente occupato a scrivere era obbligato a interrompere il suo lavoro per calmare questi, per rimproverare altri … finalmente la minuta è praticamente finita … ne viene data lettura…
“Atteso che non c’è più governo provvisorio in questa città …. il Municipio supplica V.E. di voler risparmiare gli abitanti innocui … (gli abitanti innocui) “Che codardia! (esclama un interlocutore armato) “Non è troppo umiliante … Il Municipio vi supplica non è la parola che bisogna scrivere. scrivete …. Il Municipio vi consiglia … // Il Dirigente si volta a destra e a sinistra per sapere cosa sia meglio scrivere … Un signore dice: Se i nostri confratelli non ritengono opportuno che si scriva supplicare … non approvano neppure che si dica consigliare… io scriverei semplicemente Vi preghiamo // Mentre il Dirigente scrive, uno dei capi armati dice ad alta voce: //Bisogna assolutamente chiedere prima di tutto un salvacondotto per tutti noi; affinché possiamo liberamente tornare a casa, senza dispute né oggi, né in seguito … altrimenti (e accarezzava il suo fucile in maniera molto significativa). Il Dirigente si alza in piedi e dice in tono fermo: //Signori, cosa volete? La pace o la guerra? …” E la banda armata, picchiando sul pavimento l’impugnatura dei fucili, come in un solo colpo, grida: Guerra.
Anch’io mi alzo in piedi, e ringraziando il Dirigente, dico ad alta voce: che volevo certo esporre la mia vita a un eventuale pericolo nella speranza di fare qualcosa di buono per la mia cara patria, ma che nello stato attuale degli animi, vedevo che questo era impossibile … che mi ritiravo, pronto a tornare quando tutti fossero stati d’accordo (quando tutti saremo d’accordo). La banda armata si divide in due ali al mio passaggio, e uno dei capi mi tocca la mano dicendo a bassa voce: Bravo.
Per me era evidente che il Municipio faceva ogni sforzo per salvare la città, e che i capi delle bande armate volevano innanzitutto salvare se stessi. Bisognava dunque lasciar loro il tempo di ritirarsi. Se fossi andato a parlamentare in quel momento, dalle finestre stesse del palazzo municipale mi avrebbero sparato. Era quasi mezzogiorno.
Un’ora dopo ero in refettorio con i miei religiosi, quando un nuovo messaggio mi convoca da parte del Dirigente.
Eccomi al Municipio – più nessuna banda armata – non ci sono che due giovanotti che hanno l’aria di gente onesta, e che sono là evidentemente per proteggere possibilmente gli ordini del Dirigente. Questi mi presenta il dispaccio riveduto e corretto, poi tradotto in tedesco, di cui mi spiega il contenuto, e mi invita a partire verso il Broletto dove in quel momento si trovava il punto più avanzato degli austriaci.
Eccoci ora in missione. Un bravo giovane (Pietro Marchesini) con la bandiera bianca si pone tra noi due frati, e attraversiamo la grande piazza (Piazza Vecchia) con passo grave e solenne… La piazza era assolutamente vuota; neppure una mosca. Due o tre passi prima di arrivare sotto il portico, sul quale domina il grande orologio, un grido di viva i frati (viva i frati) parte dalle finestre sulla strada che va al Granarolo (Contrada Spaderie.) alla nostra destra; nello stesso tempo alla nostra sinistra dalle finestre sulla Porta bruciata …(Porta bruciata) parte un grido di morte ai frati … (morte ai frati) accompagnato dall’esplosione di alcuni colpi di fucile. For-tu-na-ta-mente (direbbe Marmontel) la nostra ora non era suonata all’orologio che brillava sulle nostre teste. Eccoci percorrere la strada nuova (strada nuova) che tuttavia è più vecchia di me; dato che nascendo l’ho trovata nuova quanto lo è adesso. Girando trasversalmente a destra ecco la grande porta del Broletto.
Un plotone di austriaci occupa l’entrata e ci aspetta con i fucili appoggiati alla guancia. Mi fermo sollevando con la destra il mio largo dispaccio. L’ufficiale con un gesto imperioso solleva i fucili dei suoi soldati e nello stesso tempo mi fa segno di avanzare. Obbedisco ed eccoci con un solo passo in Austria. L’ufficiale prende il dispaccio e vi legge Haynau. Mi chiede se voglio salire al Castello a portare io stesso il dispaccio al Generale, o se voglio aspettare la risposta in basso. Scelgo la prima offerta, purché mi venga data una scorta … ecco la scorta; un caporale e quattro granatieri. Usciamo sul lato nord da una porta nascosta. Subito i soldati si portano i fucili alla guancia come se volessero tirare alle rondini e si mettono a correre. Noi facciamo altrettanto senza sapere bene perché, spinti soltanto dalla forza dell’esempio… Ben presto mi accorgo che per salire al Castello bisognava passare sotto le finestre posteriori della porta bruciata …(Porta bruciata), a buon intenditore basta mezza parola; e passiamo correndo senza incidenti.
Ecco che ci arrampichiamo sulla salita che porta al Castello tra due file di case bruciate o in fiamme. Le travi dei pavimenti superiori cadevano come tizzoni fumanti accanto a noi; l’interno delle case era ingombro di carboni ardenti e la strada ricoperta di cadaveri sparsi … tuttavia non si vedeva che qualche goccia di sangue qui e là; dato che non vi era stato combattimento all’arma bianca … e tutti da una parte e dall’altra erano caduti come passeri colpiti da piombo mortale. Vedo la casa e la bottega del pittore Théosa mio amico, bruciata! … la casa del Rettore delle Consolazioni mio amico, bruciata !…
Continuando l’arrampicata sul dorso della collina allo scoperto sulla quale si erge il Forte costruito da Cydnus figlio di Ercole (Figlio di Agron, figlio di Ninus, figlio di Belus, la dott.ssa Maria le spiegherà tutto ciò.) si sale a zig zag; in modo che senza girarmi indietro con la coda dell’occhio ho potuto contemplare la mia povera patria in fiamme come Troia; e il fumo di ogni casa data alle fiamme, saliva dritto al cielo come il fumo di un incensorio immobile, se il vento non si frammetteva poco o tanto … Dio mio! Non una casa si è salvata!..
Eccoci introdotti nell’alta fortezza… La nostra bandiera bianca viene consegnata a una guardia che la terrà esposta alla vista di tutta la città durante il nostro incontro… Il Generale avvertito scende dai bastioni per incontrarci sulla piazza d’arme. Il suo aspetto era severo … irritato … terribile!!! Leggendo il nostro dispaccio il suo sguardo si addolcisce gradualmente … mi è parso addirittura di intravedervi qualche sprazzo di commozione trattenuta.
Bisogna sapere che l’orribile minaccia di uccidere gli austriaci malati che si erano trovati all’ospedale (circa 200 uomini)… e di sgozzare i prigionieri (circa 14), che i nostri insorti avevano fatto durante la prima sommossa, non era di natura tale da ingraziarci il generale. Ed è per evitare questo ostacolo che il Municipio, dopo aver lavorato efficacemente per la sicurezza dei malati e degli ostaggi, aveva avuto la felice idea di far firmare il dispaccio da tutte le persone della stessa categoria, che si trovavano ora sotto fedele scorta nel palazzo municipale stesso; e che testimoniavano così la propria esistenza e conservazione attuale. Il medico austriaco, uno degli ostaggi, confermava anche per i malati … Non è dunque naturale, che la vista delle loro firme producesse sul Generale un magico effetto in nostro favore? Honi soit qui mal y pense.
Avendo letto il dispaccio il Generale si girò verso di me e mi disse: //è troppo tardi; sì è troppo tardi!... Come volete che possa fermare i miei soldati vincitori, adirati per aver visto scorrere il sangue dei loro compagni? Hanno visto cadere un maggiore, ferire un generale!!! Sapete che i vostri mi hanno ucciso duecento uomini da ieri? Perché non siete venuti ieri? Noi non dovremmo piangere oggi … Io i miei soldati, e voi i vostri concittadini!!! Venite … venite a vedere se è possibile in questo momento fermare la carneficina e l’incendio!!!
Dicendo questo mi condusse in alto sui bastioni. Tutta la città era sotto i nostri occhi. Si vedevano le truppe padrone di porta Torre lunga avanzare sui bastioni verso Porta S. Alessandro, bruciando qua e là le case che l’inferno gli assegnava. Una colonna marciava verso il centro della città per San Barnaba, un’altra dal Mercato nuovo si dirigeva verso Broletto.// Ecco una città, bella, ricca, dotta! (mi dice il Generale) piena di gente brava e onesta, che io conosco … incapace di compiere la minima cattiva azione … come può essere che la sua brava gente si sia lasciata dominare da una manciata di scellerati?// (In quel momento dalle finestre di una casa privata partono dei colpi di fucile)// Sono i vostri che tirano sui miei!! È una casa che sarà bruciata tra cinque minuti… E dunque? Voi non potete fermare i vostri e volete che io fermi i miei... Andate … fate ritirare tutti i vostri … Che la bandiera bianca sventoli sul palazzo municipale … su tutte le torri … sui principali edifici. Forse la vista delle sue bandiere bianche calmerà i miei soldati. Io farò del mio meglio per frenarli … // Io lo prego di darmi una risposta scritta…// È giusto// mi dice; e si ritirò nel suo alloggio per scrivere…
Con la risposta scritta torniamo in città con la stessa scorta fino al Broletto. Vi entriamo dalla stessa piccola porta a nord, e ci fanno uscire, noi tre tutti soli, dalla grande porta meridionale che dà sul fianco del Duomo. Eccoci ora sulla piazza del Duomo a cercare di raggiungere il municipio. Prendiamo la direzione della strada di fronte al Duomo, e che conduce a Sant’Ambrogio; quando dall’angolo di questa stessa via parte un colpo d’arma da fuoco, poi un secondo, e un terzo. Le palle passano tra noi come confetti … Il nostro portabandiera che portava anche il dispaccio fissato sul suo cappello, faceva dei balzi e dei saltelli per evitare i confetti, che vedevamo arrivare dalla bocca di un cannone, del quale non scorgevamo che la punta appoggiata contro l’angolo del muro … in quattro salti raggiungo quell’angolo, e sorprendo il nostro avversario che solleva confuso la canna del suo fucile … e io con un movimento di collera … prendo con la mano destra il lembo del mio mantello … e gli do un leggero colpo come di frusta sul dorso, come avrei fatto con il vostro cincillà, Signora, (Si ricorda di Cincillà, il suo cane favorito?) dicendo: //Non vedi disgraziato che siamo amici? – Padre … non vedo più nientenon conosco più nessuno …” Anche il nostro portabandiera lo sgrida e lo invita a seguirci al municipio … dove ben presto arriviamo senza altri incidenti.
Il Dirigente legge la risposta del Generale che conteneva suppergiù ciò che mi aveva detto a voce. Aggiungeva tuttavia queste parole: //che non avrebbe risposto di nulla, finché non avesse ottenuto la restituzione degli ostaggi// Il Dirigente si ritira nel suo studio per un nuovo dispaccio, e mi prega di attendere per una seconda spedizione.
Il nuovo dispaccio conteneva la preghiera al Generale “che avesse la bontà di inviare subito un ufficiale di sua fiducia, al quale sarebbero stati consegnati gli ostaggi che erano custoditi nel palazzo stesso sotto la responsabilità del municipio.”
Al momento di partire, il nostro bravo compagno, il portabandiera, si sente male, quasi svenuto … su una poltrona … se ne cerca un altro … poi si cerca la bandiera bianca che ci era servita la prima volta … non esiste più … andate a prendere quella che c’è sul balcone del Palazzo … è scomparsa … (era la quinta che il Dirigente aveva fatto mettere, e che l’inferno aveva portato via).
Si manda in fretta a bussare da un vicino bottegaio conosciuto per un rotolo di tela bianca … presto presto il bastone per attaccarci la tela … non si trova … ecco un bastone in giunco che serve per accendere le candele della Madonna là in alto … va bene … Lei ci porterà fortuna … detto … fatto … presto presto … andate … è ora.
Come ci trovammo sulla grande piazza, tre colpi di stuzzen partirono dall’alto della torre del Popolo (tor del Pégol) lanciando le loro tre palle obliquamente sul terreno che stavamo per attraversare … una delle palle ha colpito la terra così vicino a me che ho sentito le mie guance pizzicate dalla ghiaia sollevata dalla violenza del colpo. La torre del popolo fa parte del Broletto, sono dunque degli austriaci, dei tirolesi, che ci salutano così … Del resto come distanza eravamo fuori dalla loro portata!!!! Forse è anche un segnale convenuto … la parola dell’uomo che sfida il leone … Un momento dopo una colonna serrata di fanteria austriaca sbocca dalla strada delle spaderie, gira l’angolo della piazza, e con i fucili spianati viene verso di noi a passo di carica … - Immobile sollevo il mio dispaccio … la colonna si ferma … l’ufficiale mi fa segno di avanzare … mi circondano mi interrogano in una lingua che non capisco. Per tutta risposta mostro loro l’indirizzo Haynau. Passa dall’uno all’altro tra le mani degli ufficiali. Uno di essi mi fa cenno di seguirlo, noi lo seguiamo e la colonna riprende il suo movimento verso il Municipio.
Il nostro ufficiale arrivato dalla porta di Torre lunga mi chiede a gesti dove bisogna andare per trovare il generale Haynau … Gli faccio segno che conosco il cammino, e andiamo dritti al Broletto, e da là al Castello come la prima volta, tranne che questa volta non temevamo più Porta bruciata.
Eccomi dunque di nuovo in presenza del Generale, che mi conduce una seconda volta sui bastioni per mostrarmi una colonna di seimila croati che arrivavano a marcia forzata da Mantova … Si vedeva chiaramente la polvere sollevata dai loro passi a tre miglia dalla città – “Se quella gente può arrivare, prima che la città sia interamente sottomessa, e prima che abbia potuto mettere le mie guardie a tutte le porte, non rispondo più di niente!!! Loro non dipendono da me!!!
Mi rattristava vedere la città interamente occupata dalle truppe regolari … Il fumo diminuiva sensibilmente, e gli austriaci si impadronivano successivamente di tutte le porte della città.
Allora il Generale chiamò l’ufficiale che mi aveva scortato; gli diede i suoi ordini, poi senza altra risposta scritta mi disse: “Ecco l’ufficiale di mia fiducia che prenderà in consegna gli ostaggi…”
Eccomi sollevato da un grande peso che mi pesava sul cuore – La mia missione era finita – Respiro più liberamente uscendo dal Castello.
Tuttavia ancora un triste spettacolo si prepara davanti ai miei occhi. Sono due infelici presi con le armi in mano, che la legge marziale condanna alla fucilazione … passano davanti a noi … scortati da un plotone di cacciatori … mi sembravano i compagni del mio cincilla, forse anch’esso uno dei due … l’abito … l’età … la corporatura me lo facevano supporre … avrei voluto offrir loro il mio santo ministero … ma chi sa se sono cattolici o protestanti? … e poi senza esservi invitato dall’autorità competente!!!! Ci viene fatto segno di fermarci; I bastioni all’interno e all’esterno sono coperti di spettatori, cioè di tutti i soldati che non sono di servizio – I condannati vengono fatti scendere nel fossato … passano sotto il ponte … inginocchiati contro il viale vengono loro bendati gli occhi… il più robusto tra i due grida a voce alta: //Gesù, Giuseppe e Maria vi raccomando l’anima mia // È cattolico … gli do l’assoluzione come avrei fatto con Maria Antonietta, o Maria Stuarda. Anche l’altro, ma con voce più fievole pronuncia la stessa preghiera … anche a lui do la sua assoluzione.
I cacciatori sono pronti, a tre a tre. Il più debole viene giustiziato per primo … si accascia e resta immobile, la testa quasi sulle sue ginocchia … anche il secondo … il tamburo rulla … ci viene resa la nostra bandiera bianca … Scendiamo prendendo direttamente la strada del Municipio. Erano le sei di sera. Così finisce il mio primo aprile 1849.
Nota aggiuntiva. Alcune settimane dopo era una domenica … tra le undici e mezzogiorno bussano alla porta della mia piccola cella … Avanti … Vedo un giovanotto che entra timidamente … si inginocchia … “avanti … avanti amico mio … credo di averla vista da qualche parte, ma non mi ricordo dove!!!”
Padre mio, le chiedo perdono per averla offesa …” Io non sono stato offeso da nessuno, lei si sbaglia …” non mi sbaglio, padre … sono quello che lei ha toccato con il lembo del suo mantello … (era il mio cincilla col vestito della domenica) … E dei suoi compagni cosa ne è stato? “I miei compagni, padre mio, non sono stati toccati come me dal suo mantello, si sono smarriti … sono stati presi con le armi in pugno … condotti là in alto nel Castello, e fucilati!!! (Che segno di luce!) …
Così, quei due infelici lasciando la vita avevano trovato la porta del Cielo aperta … e a questo scopo Dio si era servito del ministero di colui sul quale essi stessi alcune ore prima avevano sparato … O! Saggezza Divina … quanto i tuoi giudizi sono incomprensibili e quanto le tue vie imperscrutabili!
Brescia, San Giuseppe 29 giugno 1850 il vostro devotissimo servitore Padre Maurizio da Brescia”
Nel proclama con le condizioni di resa venne comminata alla città e alla provincia una multa di guerra di sei milioni di svanziche, da pagarsi mensilmente in rate di 500.000 svanziche, a partire dal primo maggio.

In Missione a Milano

“Carissimo Nipote Siamo arrivati felicemente a Milano verso il mezzogiorno e per tre ore e più mi sono perfettamente scordato di tutto e di tutti per non occuparmi che di una parola e questa parola era Brescia. Dopo che ho veduto Monsignor Arcivescovo, il quale ci ha fatto coraggio per andare dal Feld Maresciallo oggi, ho voluto scrivervi, ma il corriere era partito. Affinché non mi succeda come ieri, vi scrivo questa e la mando alla posta prima di mezzogiorno.
Questa mattina sono stato a dir la Messa ai Benfratelli ed ho fatto colazione dal M. R. Ex-Provinciale Padre Ottavio. Poi ho fatto una visita alla Chiesa di Sant’Angelo e al suo custode Padre Alberto.
Ed eccomi ad aspettar l’ora dell’udienza che sarà dopo mezzogiorno. Vi saluto tutti quanti in casa e fuori di casa. Vi abbraccio e sono
Vostro affezionatissimo Zio Fra Maurizio. Milano, 10 aprile 1849”
Questa lettera si trova alla Biblioteca Queriniana di Brescia tra i manoscritti di Padre Maurizio.
Il 7 aprile 1849 la municipalità di Brescia incaricò Padre Maurizio di recarsi in delegazione a Milano, insieme a Clemente Di Rosa e Bartolomeo Federici, dal feld maresciallo Radetzky e presentare una petizione per ottenere una diminuzione della multa imposta alla città di Brescia a seguito degli eventi causati dai giorni dell’insurrezione.
Padre Maurizio, malgrado l’importanza che assumeva in simili circostanze, manteneva la stima di tutti per l’umiltà con la quale continuava la sua vita conventuale e di studioso.
La missione riuscì in parte, graziando molti comuni della provincia e diminuendo sensibilmente la multa da pagare.

Con Napoleone III

E tra un’epidemia di colera e l’altra dove il buon padre sempre si distingueva, nel portare assistenza e conforto ai malati, Luigi Napoleone Bonaparte, già Presidente di Francia , nel 1852 veniva eletto Imperatore con il nome di Napoleone III.
Nel 1856 in qualità di Commissario di Terra Santa per il Lombardo Veneto, Padre Maurizio, dopo essere stato a Roma, dove ebbe una cordiale udienza con Papa Pio IX, imbarcatosi a Civitavecchia si recò a Parigi per ottenere da Napoleone III la protezione dei luoghi santi, posti sotto la custodia dei Francescani. Erano anni che padre Maurizio e l’Imperatore non si rivedevano, quante volte da giovinetto era stato a Canino con i cugini e quante volte con essi, ebbe quale precettore Padre Maurizio. Sta di fatto che dopo quell’incontro oltre alla protezione dei luoghi sacri, padre Maurizio ottenne da Napoleone III anche la concessione imperiale di aprire a Parigi un commissariato per raccogliere offerte da inviare alla custodia di Gerusalemme.
Nel luglio del 1858, a seguito di un incontro svoltosi nella cittadina di Plombières l'Imperatore si accordò con il Primo Ministro piemontese Camillo Benso Conte di Cavour: in caso di attacco dell'Impero austriaco al Piemonte, la Francia sarebbe entrata in guerra a fianco di Vittorio Emanuele II. Il conflitto inizio nell’aprile del 1859.
Nel giugno dello stesso anno, padre Maurizio, fu instancabile nell’assistenza ai feriti della battaglia di Solferino e San Martino, tant’è che trasformò convento e chiesa di San Giuseppe in un affollato ospedale militare ricevendo ancora una volta le lodi delle autorità cittadine.
Nello stesso periodo, Napoleone III, giunto a Brescia, a seguito del suo esercito, lo volle accanto a sé, nella residenza di palazzo Fenaroli. A quell’epoca padre Maurizio aveva 81 anni.
Con queste poche righe, lo storico bresciano Federico Odorici nella “raccolta di cronisti e documenti storici lombardi” del 1857, rende viva e completa l’immagine di Padre Maurizio da Brescia:
“Ond’io quando veggo il principe di Canino eleggere
un francescano a precettore de’figli suoi (e non credo
che il principe fosse educato in un convento) e contemplo
quel frate assisterlo nelle astronomiche esplorazioni
di Sinigallia; poi fra le tombe di Cavalupo
descrivere i monumenti di Vitulonia emersi a rinnovare
sulle origini misteriose delle italiane arti la
grave lite; quando il veggo salir solo la vetta di
un colle tutto irto d’armati e d’armi, per farsi mediatore
tra il popolo bresciano che memore dell’antica
virtù, volea pur vincere o morire, ed un esercito, che
come di ferrea catena l’avea recinto, non posso a
meno di non replicare col Botta ritrovarsi anche ne’ frati
uomini egregi”
La citazione precedente ci consente di inserire un curioso manoscritto di Garibaldi, divenuto poi volantino e distribuito a proposito della parte avuta da uomini di chiesa nei fatti del risorgimento.

Gli Ultimi Anni

Dopo i drammatici avvenimenti delle dieci giornate la figura di padre Maurizio era ormai nota a tutti i bresciani, anche i più umili ed i ragazzi se lo indicavano a vicenda.
Nel 1850 al termine del mandato triennale come provinciale, continuò a rimanere in San Giuseppe a Brescia, come consigliere molto ricercato ed ascoltato. Era talmente alta la stima che godeva, che si sparse la voce che fu richiesto Vescovo dal popolo bresciano. Vescovo, non fu, ma dopo qualche mese gli giungeva da Roma da parte di Pio IX la nomina a Definitore Generale dell’ordine, che lo poneva sopra lo stesso provinciale. Questo privilegio, come del resto, prima, la nomina a provinciale, non cambiarono mai il suo modo di vivere, che restava come quello di ogni altro frate.
Nel 1853 si aggiunse la carica di Commissario di Terra Santa per il Lombardo-Veneto, che padre Maurizio accettò, scrivendo al Ministro Generale: “pur avendo molto temuto e dubitato di poterlo assolvere bene”. Il Commissariato che aveva sede a Venezia si premurava di raccogliere le elemosine per i luoghi santi e, tutti gli effetti acquisiti con esse, spedite a Gerusalemme attraverso una lunga via: da Venezia a Trieste, da qui in vapore sino a Beirut, quindi in barca a Jaffa e con cammelli e cavalli a Gerusalemme, con tanto di lettera che attestava la consegna.
La nomina a Commissario fu contestata da Venezia, dove si trovava la sede.
, che non voleva quale commissario un religioso di Brescia, seppur facessero parte della stessa provincia francescana. Così gli ignoti avversari manovrarono in tal modo che l’arcivescovo di Vienna propose a Radetzky la nomina a commissario del parroco del convento veneziano della Vigna ed il feld-maresciallo accettò ben volentieri. Non erano certo estranee a questo intrigo ragioni di ordine politico, il buon padre era fin troppo conosciuto agli austriaci. Giunse così la conferma a padre Maurizio di fungere commissario dei luoghi santi per il Lombardo-Veneto ad esclusione di Venezia. Così venne cambiato l’iter in quanto tutte le elemosine raccolte dal commissariato di padre Maurizio, dovevano essere inviate a Vienna.
Nonostante le varie incombenze, sempre infaticabile, egli non venne mai meno alla sua regola, come scrisse a Carlotta Bonaparte, faceva ancora “i suoi venti miglia” senza stancarsi. Era sempre un modello per i propri confratelli.
La sua cella in San Giuseppe era un punto d’incontro, lo visitavano ufficiali e militari, nobili e plebei, dotti e ignoranti, per avere consigli, intercessioni presso le autorità e raccomandazioni che padre Maurizio elargiva a tutti. Quotidianamente visitava gli ammalati, dove oltre a portare il conforto con le preghiere, elargiva anche consigli di come curarsi al meglio, seguendo quanto dicevano i medici. Durante le epidemie di colera prestava la sua opera senza interruzione, valendosi delle sue conoscenze curative aiutava e dava conforto agli ammalati.
Molti i suoi sforzi durante la riforma governativa per la soppressione dei conventi dell’ordine in più parti d’Italia. Riuscì a salvare quello di Sant’Angelo a Milano. Ma fino all’ultimo le preoccupazioni lo tennero in ansia.
In una lettera del 18 febbraio 1865 scrisse al Ministro Generale: “Se Vostra Paternità Reverendissima avesse bisogno di un vecchio il quale è entrato ieri nell’anno suo ottantesimo ottavo, V.P.R. ma, sa dove si trova ed è a sua disposizione… se ella crede a proposito servirsi di questo vecchio e tarlato mobile di casa, mi dia convenienti istruzioni ed una benedizione come quella che ricevette il paralitico quando sentisse dire “Surge et ambula”.
Sereno e carico di meriti il buon padre morì il 25 marzo 1865.
“Curvo, avvolto nel saio di frate osservante; candidi i pochi capelli, il volto solcato da profonde rughe, l’occhio vivo e tranquillo, il portamento pieno di una maestà semplice e paterna, che imponeva il rispetto e insieme ispirava la confidenza: la parola lenta e grave, ma senz’arte e naturale e quasi ruvida”, così lo ricordava diversi anni dopo monsignor Geremia Bonomelli Vescovo di Brescia.
agosto 2018
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